Valdesi
La lunga storia di una minoranza
Valdo di Lione
I valdesi prendono nome dal loro fondatore, Valdo di Lione, che, nel lontano 1170, apparve sulla scena storica radunando attorno a sé altri uomini e donne che la pensavano alla stessa maniera e cioè vivere sull’esempio degli apostoli, in povertà e itineranza, senza legarsi ad alcun bene terreno.
Questo stile era del resto proprio a molti movimenti ereticali del XII e del XIII secolo, i quali aspiravano ad un vero e profondo rinnovamento dell’istituzione ecclesiastica dal suo interno. Essi rivendicano la libertà di testimoniare la loro fede con semplicità e senza spirito di rottura con nessuno.
Proprio su questo punto, tuttavia, nacque il conflitto con la dottrina cattolica che non ammetteva autorità laica sulle Scritture. Proprio su questo punto si mantenne nei secoli l’ostinata resistenza valdese, dal medio evo al presente. I "Poveri di Lione", così vennero nominati i valdesi, furono di conseguenza perseguitati, si può dire, con fasi alterne fino al XIX secolo. Una generazione più tardi di Valdo un altro personaggio si farà portatore di un messaggio evangelico radicale: Francesco. A differenza del primo, tuttavia, lascerà scritti e ricordi, mentre Valdo sparirà nel nulla, così come era apparso.
Valle Pellice
I valdesi popolarono, dopo la cacciata da Lione, molte vallate alpine, dove, con la popolazione locale, alimentarono comunità clandestine che lentamente reclamavano la luce. In particolare, sin da quei tempi, tre valli (Pellice, Chisone e Germanasca) delle Alpi occidentali, a 50 Km dalla città di Torino, in Piemonte, ospitano ancora oggi una piccola società valdese di 35mila anime, un piccolo mondo con una tradizione diversa dalla cultura di maggioranza italiana, che ha sviluppato una storia multiculturale e pluralista, per forza e per scelta. Prima di approfondire questa idea, ricordiamo tuttavia brevemente la sua vicenda cronologica per avere un quadro più completo. Nel Quattrocento, una figura tipica della struttura sociale valdese era il barba (zio in lingua d’oc), una figura di predicatore itinerante che teneva i collegamenti con le varie "basi" evangeliche in Europa. Durante la sua vita, interamente consacrata alla diffusione dei Vangeli, il barba percorreva lunghissimi viaggi, dal Mediterraneo al Baltico, fra pericolo di morte e disagi di ogni genere.
Trattato di Cavour: no al cuius regio
Nel 1532 i valdesi aderirono alla Riforma protestante. Ciò produsse grandi cambiamenti nell’organizzazione comunitaria. La città di Ginevra, guidata da Calvino, divenne il loro esempio. Al posto dei barba si insediarono i pastori, quei ministri di culto che con il Concistoro (esecutivo) dovevano guidare la chiesa locale. I gruppi di credenti semiclandestini lentamente chiedevano di essere riconosciuti come credenti "protestanti" e, nello stesso tempo, sul piano sociale, reclamavano le autonomie comunali e lo sgravio dalle antiche regalìe. Come sovente succede nella storia, quando si rivendica la dignità della persona, i piani si confondono. In questo caso il protagonismo religioso sconfinò nel protagonismo politico, segno di una crescente consapevolezza non solo come chiesa bensì di popolo. Il Cinquecento manifestò, di conseguenza, un intreccio interessante di lotte contadine e proclamazione di libertà di coscienza che terminò con un Trattato (di Cavour, dalla località dove si tennero le trattative, sempre a poca distanza da Torino) molto avanzato per i tempi. Infatti, in Europa una delle norme stabilite dalla Dieta imperiale di Augusta (1555) nei confronti delle divisioni religiose succedutesi dopo lo scoppio della Riforma protestante, era quella del cosiddetto Cuius regio et eius religio; in altre parole: la religione dei sudditi deve essere quella del sovrano.
Se il suddito non condivideva lo stesso credo allora doveva emigrare sotto un altro sovrano a lui confacente.
In Piemonte, nelle tre valli valdesi ciò non successe perché i valdesi, resistettero con le armi, sostenendo che quella terra ero lo spazio in cui Dio li aveva collocati e lì sarebbero rimasti a difendere case, boschi, campi, donne e bambini. Furono aiutati nella loro resistenza dai correligionari francesi di oltralpe che, in contatto permanente, accorrevano in loro aiuto proprio come in una "internazionale" protestante europea. Il trattatto di Cavour sancì al fine, unico caso in Europa, la possibilità di essere suddito con una religione diversa dal proprio sovrano, pur restando confinato in un "ghetto" alpino, un territorio con una frontiera ben precisa oltre la quale (dal fondovalle in poi verso la pianura) non era possibile uscire.
Persone di serie B
I valdesi vissero così fino al 1848, parlando, di conseguenza, molto di più con l’Europa cittadina e protestante che con il resto del Piemonte sabaudo con il quale non avevano alcuna possibilità di contatto, essendo dei non cittadini, delle persone di serie B. Per tutto il Seicento i valdesi furono perseguitati fin nelle loro case e quando non erano i mercenari a distruggere dimore e raccolti, frati e preti lanciavano campagne di conversione nei loro confronti. Nel 1686 Vittorio Amedeo II li esiliò in Svizzera, con la speranza di affittare le loro terre a sudditi fidati. Invece, nel 1689 i valdesi tornarono con una spedizione armata finanziata da Guglielmo III d’Orange, il sovrano delle Province Unite olandesi che si era contrapposto, fermandolo, a Luigi XIV, il famoso re Sole. Da questo momento essi vissero più o meno tranquilli, nel senso che non vi furono più campagne di sterminio verso di loro, ma, come abbiamo anticipato, soltanto nel 1848 ottennero, al pari degli ebrei, le Lettere Patenti che concessero loro l’emancipazione civile. Il che significò poter frequentare scuole, ospedali, commerciare in pianura come altri piemontesi.
Questo lungo correre dei secoli certo lasciò una memoria e uno stile culturale particolare nelle vallate alpine e nelle generazioni valdesi che ne furono eredi. Dopo il 1848 i valdesi si diffusero in tutta la penisola e il loro procedere seguì le tappe dell’unificazione italiana alla quale diedero un contributo portando i valori in cui credevano: laicità, libertà di coscienza, scuole e cultura affinché ognuno fosse in grado di leggere da solo la Bibbia e sviluppare con Dio un dialogo personale.
Quale rapporto con la cultura italiana?
I valdesi si posero, in ogni caso, sempre una domanda che ancora oggi si pongono: quale può (deve) essere il rapporto con la cultura italiana. La loro storia fu sempre la loro carta di identità. I fatti potevano testimoniare da soli. Essi parlavano di eresia, resistenza e comunità di minoranza.
Queste caratteristiche possiamo dirle con linguaggio moderno, ma esistono ancora. Un valdese rivendica la sua italianità a pieno titolo perché ha concorso a fare la storia d’Italia, ma nello stesso tempo, trova difficoltà ad accettare lo stile culturale italiano, almeno quello della sua parte meno laica, meno abituata al rispetto dello stato di diritto, meno propensa a considerare il bene comune una responsabilità di tutti.
I valdesi nelle loro vallate (ma anche nella loro zona di emigrazione ottocentesca, nel Rio de la Plata sudamericana, fra Uruguay e Argentina) hanno sviluppato una piccola società protestante più simile al funzionamento di un paese europeo nordico che al potere strutturato e informale dei gruppi di sottopotere nostrano. Per esempio, ogni anno il Sinodo che si tiene a Torre Pellice nel mese di agosto, formato da laici e da pastori in parità, eletti dalle varie chiese del territorio nazionale, funziona come un vero e proprio Parlamento, con le sue commissioni di lavoro, gli ordini del giorno, le discussioni assembleari. Ognuno si esprime sull’argomento in oggetto e alla fine si decide ciò che poi verrà sottoposto nel corso dell’anno, in materia di fede, di organizzazione e di tematiche "calde" (bioetica, diritti umani ecc.), alle singole comunità. È il Sinodo il massimo organo rappresentativo delle chiese valdesi e metodiste al posto di una figura unica, come il pontefice. E sul suo esempio sono sempre organismi collettivi gli enti decisionali delle chiese. Questi esempi per dire che la convivenza con la "maggioranza" italiana produce uno scarto di stile culturale. Da secoli di storia basati sulla coerenza fra azione e parola è molto difficile accettare la retorica mediterranea sovente usata per nascondere i pensieri invece che per farsi capire. Non bisogna, tuttavia, pensare che le comunità valdesi valligiane e cittadine siano compatte e organiche. Anche al loro interno ci sono contraddizioni e segni di stanchezza. La secolarizzazione ha tolto alla religione la sua egemonia culturale. Restano i valori, sovente sganciati dalla loro radice. Molti giovani valdesi, per fare un esempio, così come molti adulti quarantenni e cinquantenni, non frequentano più le tradizionali attività ecclesiastiche, ma credono ancora in una identità valdese generica. Riconoscono l’importanza di una storia plurisecolare di resistenza all’omologazione, ma nello stesso tempo ne ereditano nella realtà della loro vita soltanto più i valori laici (anticlericalismo, laicità, onestà intellettuale, rigore morale ecc.). La fede, insomma, anche per i valdesi non può più essere contenuta in una storia di popolo, né in una società diversa, di minoranza. La fede, come sempre, sta dimostrando, la sua eversività creativa in tanti modi, specie nell’incontro con altre dimensioni spirituali, ecumeniche e interculturali. Conoscere la storia dei valdesi è in ogni caso riportare alla storia italiana una pagina che comunque le appartiene, così come appartiene all’Europa dove i valdesi possono essere considerati parte della maggioranza protestante.
Bruna Peyrot
facoltà di scienze della formazione
università di Torino