Una festa esplosiva

di Della Queva Bruno

A margine del campo di Acquafredda

Non mi è facile parlare dell’esperienza di Acquafredda (San Costantino Albanese, 24-29 luglio): 42 voci che si sono intrecciate, sovrapposte, parlate ed ascoltate. La mia voce ora è sola e, vi assicuro, può dire molto poco rispetto a ciò che il campo è stato.
Il tema del campo è stato La festa e la musica come luogo di incontro. La domanda era: è possibile vivere la musica e la festa in modo differente? È possibile costruire un campo come una festa dove la musica sia un mezzo che ci permetta di incontrarci e relazionarci in maniera profonda, “intima”? La sfida era di costruire uno spazio altro, dove la musica e la festa non si subissero, ma si vivessero. Il fine siamo stati noi, i legami che abbiamo costruito; ci siamo resi conto che il senso dell’incontro, della musica, della spiritualità, del nostro vivere non è mai dato una volta per tutte, che possiamo (dobbiamo) essere creativi ed appropriarci di ciò che normalmente subiamo.
I lavori del campo si sono aperti con una riflessione sul senso dell’incontro. Come e dove si incontrano i giovani? Come costruiscono le loro relazioni? Il tema non prevedeva l’intervento di un testimone. Alla fine dei lavori i quattro gruppi si sono riuniti in plenaria per mettere in comune i diversi spaccati di vissuto emersi.
Il giorno dopo, il campo è entrato nel vivo: ci siamo divisi in due macrogruppi di venti persone ciascuno ed ogni gruppo ha lavorato con uno dei due esperti, Marco Iadeluca e Luca Schettini.

Atmosfera magica
Si è creata da subito un’atmosfera magica, che ci ha permesso di incontrarci e di fonderci nella musica, in uno spazio al di là del detto e del dicibile. Quando i due gruppi si sono riuniti per portare a compimento lo sviluppo del lavoro (e cioè la costruzione di un pezzo ritmico suonato con materiale povero) non c’era bisogno di parlare, ci bastava osservarci l’un l’altro e cantare. È stato un momento di gioia pura, senza ragione, senza bisogno di commenti. Vorrei solo aggiungere una piccola nota personale: io sono ateo, ma in quel momento, mentre suonavamo e cantavamo, ho percepito una sensazione di totalità, una dimensione profonda.
Ora, io non so spiegarlo, ma so con certezza di aver scoperto qualcosa di me che prima non conoscevo. Questo momento è stato descritto con parole splendide da Maria durante la verifica: ci ha detto di aver scoperto un modo diverso, più profondo di pregare. Ripeto: io non credo in Dio, ma forse in quel momento ho pregato insieme a quaranta persone.
In questa giornata abbiamo raggiunto lo scopo del campo. Bisognava esserci per capirlo ed ora più che mai mi rendo conto di quanto siano inadatte e limitate le mie parole.

La grande festa
La festa era divisa in quattro tempi di un’ora ciascuno (la presentazione, la cena, la musica e la danza). Ogni gruppo avrebbe preparato uno dei momenti previsti, con lo scopo di coinvolgere tutti i partecipanti. In questa giornata i gruppi hanno lavorato senza sosta, dando massimo sfogo alla loro creatività e alla loro fantasia, per creare uno spazio esplosivo e ricco di colori, ma soprattutto uno spazio nostro, costruito e gestito da noi.
La serata è proseguita attorno al fuoco, osservando le stelle, sdraiati sul prato, poi tutti a nanna. Il 28 luglio si è aperto con la testimonianza di Egidio Grande. Egidio è stato in mezzo a noi, abbiamo dialogato insieme della sua esperienza di inadeguatezza, del senso delle nostre scelte; assieme ci siamo interrogati e assieme abbiamo cercato possibili strade da percorrere.
La mattinata si è conclusa con la serie di balli organizzata per la sera precedente. Quaranta corpicini agitati sotto il sole di mezzogiorno, quaranta ragazzi sudati, accalorati e pazzi, consapevoli e felici di esser tali. In serata sono arrivati Giuseppe Stoppiglia e Pape Kanute, griot africano. Pape ci ha spiegato il senso della musica africana; lo abbiamo ascoltato, ma più che altro abbiamo suonato, ballato e cantato i ritmi che ci ha portato in dono. E anche questo è stato uno spazio magico.

Il congedo
Dopo, l’ultima notte: la malinconia che inizia a farsi sentire e la voglia di sfruttare al massimo il tempo rimastoci. Il campo si conclude con una verifica in plenaria dove ognuno di noi racconta ciò che ha vissuto al campo. Giuseppe Stoppiglia, partendo dalle nostre riflessioni, ha parlato di Macondo e del senso della relazione. Il campo si è prolungato fino alla stazione di Taranto. Qui ridiamo, piangiamo e cantiamo e come al solito ci facciamo riconoscere: la gente ci osserva allibita, senza capire. Per primi partono gli amici di Bitetto, dopo qualche ora gli amici del Veneto.
Il campo è del tutto finito, per quel che mi riguarda però la sensazione è di essere appena all’inizio.