I padri, i figli, il silenzio
Ritrovarsi nel non luogo dello spaesamento
Né con me, né senza di me
«Né con te, né senza di te: perché il silenzio dei figli non si indurisca troppo contro i padri». La provocazione lanciata da Macondo all’incontro di Dosolo è densa e sembra definitiva. Tre sono i luoghi di questa geografia relazionale: i padri, i figli, il silenzio. Cerco di percorrerne le traiettorie, chiedendo in prestito parole, incontri e sensazioni, con la consapevolezza che non si tratta di cammini piani, di strade bianche, ma di sentieri di bosco.
Quale silenzio
Mentre scrivo, l’odore acre di lacrimogeno è ancora vivo nelle narici di chi è stato a Genova. Più di centocinquantamila persone hanno preso parte alla marcia pacifica antiglobalizzazione. Fra di essi migliaia di giovani, di figli, che hanno posto fine al silenzio.
Vivo una sensazione strana, di irrequietezza. E, accanto, una sorta di nostalgia virtuale, un malinconico ricordo di due periodi che non ho vissuto: la Resistenza e il Sessantotto. Due momenti in cui i figli hanno preso la parola oltre o contro i padri, due momenti in cui i figli hanno saputo dare un nome ai padri e, nei confronti di quel nome, hanno preso posizione.
Qual è il nostro silenzio, ora? Da dove nasce la mancanza di parola? Ecco: non riusciamo a trovare il NOME adatto per i nostri padri. I nomi che avevamo a disposizione ci sono caduti di mano, suonano falsi, vuoti, rimbombano inadeguatezza.
Siamo di fronte ad un padre sconosciuto, o meglio che non riusciamo a riconoscere:
nessuna definizione tu sei,
lucidità è nostra illusione:
questo predicarti, quando tu
ci frani nelle mani
come nuvola.
E non sarà soluzione
neppure la morte:
la soluzione è qui,
il silenzio 1 .
Il silenzio è il luogo dello spaesamento: chi sei tu, padre? Le parole che mi hai insegnato non danno nome a te, non danno nome al tempo che viviamo. Non sono in grado di utilizzarle, e allora scelgo il silenzio.
Né con te, né senza di te
Sono qui dentro
ai miei jeans,
coi pugni chiusi
e il cuore lacerato.
Nel silenzio
non chiedo nulla,
ma tu, guardami
negli occhi 2.
Lo spazio del silenzio non è arido, non è immobile. È uno spazio di richiesta. Se è vero che non riesco a chiamarti, è anche vero che non posso rinunciare a te. Per quanto le parole che mi hai date annaspino nel mio vivere, non mi è permesso cancellarle. Sono realmente in grado di disconoscere, con il tuo sforzo, te? Francesco Guccini, da padre, confida alla figlia:
sentirai che tuo padre ti è uguale,
lo vedrai un po’ folle e un po’ saggio,
nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio;
la paura e il coraggio di vivere
come un peso che ognuno ha portato,
la paura e il coraggio di dire: «Io ho sempre tentato» 3.
È il padre che consegna le parole per dar nome al mondo, le categorie per interpretarlo e anche per distruggerlo. Qui sta il rischio e la possibilità di sbagliare tutto. Il padre cerca di darsi un nome e di dare un nome alle cose. Il nome più facile ci viene dai dogmi di ogni forma o colore: politici, sociali o religiosi. Il dogma è ciò che non si ha più il tempo di discutere, è la confezione razionale che diamo alla nostra paura di stare in relazione, la motivazione superficiale e definitiva che copre la nostra nonsosta di fronte alle emozioni. Il dogma è la scappatoia a cui, di volta in volta, diamo il nome più utile: buona educazione; buon senso; sidice o sifa; si è sempre fatto così; non è opportuno parlarne; non sono cose per te; è l’abitudine; non è importante4; ora non ho tempo; ho alcune responsabilità; è il mio/tuo dovere.
Sentiero interrotto
Che cosa ci fa dire che il nome ostentato non è quello vero? La distanza tra quello che ascoltiamo e quello che vediamo. L’adottare, insieme al pulsare degli ormoni, il metro di giudizio del cuore di contro al ragionamento, porta il figlio di fronte alla differenza tra una verità spiegata e una verità annusata, tra la certezza delle parole e la presenza di un’emozione. Turoldo, profetico anche in questo senso, avvertiva:
unico male l’abitudine e la scelta tragica:
discorrere invece che intuire5.
La verità che accade in una sensazione, in un’emozione, in un sentimento, svela il limite della certezza solamente raccontata. È più di un anno scrive un’amica che le cose tra i miei genitori non vanno bene… I segni del disagio si moltiplicano, si fanno fisici, abitano sensibilmente la casa. Gli umori sono scostanti; compaiono le occhiaie a indicare notti insonni ed è difficile trovare la parola giusta, anche per dire solo: io ci sono. D’improvviso, il modello della "famiglia colorata", l’esempio d’amore che per me avevano costituito da sempre i miei genitori, mi è crollato davanti. Davvero ho avuto un periodo di grande sconforto proprio per la perdita dell’"ideale" del modello di matrimonio e di amore che avevo sempre avuto.
Il silenzio non è finale, non è arido.
È sofferto e proprio per questo è gravido: alla fine mi sono abituata anche a questo, a vedere i miei genitori un po’ meno perfetti e un po’ più bisognosi di aiuto, anche loro.
Con le parole di Martina:
E improvvisamente ti trovo:
seppellito nelle rovine del mio cuore,
ma sempre dentro di me6.
Un nome è possibile, anche se nato dal dolore, finalmente reale. Da qui si riparte.
Anche loro. Un’immagine
La vetrata di Taizè mostra un fanciullo, Isacco. Alle spalle un adulto, il padre Abramo. E le sue grandi mani: una sulla spalla, a trattenere quasi, l’altra poco dietro, nascosta, a sospingere: …vai! Una a custodire, l’altra a liberare. Su di me poni la tua mano, dice il Salmo. Trattenuticustoditi, spintiliberati. Qualcosa ci precede: ci avvolge, ci protegge, ci dà definizione ma anche ci può incatenare e confinare. Possiamo sentire stretta questa definizione, non nostra, falsa, incompleta, estranea, invadente o superficiale (ma c’è e molto di essa è il come l’avvertiamo).
Qualcosa ci lascia andare, dà energia alle nostre ali e ci rassicura sulle nostre possibilità ma alla fine ci getta nella mischia, anche brutalmente, perché mai ci si sente adatti. Ci permette di abbandonare la definizione data, per cercare la nostra propria definizione. Per cercar fuori quello che già da sempre siamo. Per scegliere, noi, quel che siamo stati fatti, nel progetto che Dio ha in serbo.
Lasciar essere: qui sta la nuova sfida. Non si tratta di permettere, di concedere, di slegare, di separare. Il movimento non è del padre verso il figlio, ma sta nel padre stesso e solamente in lui. È un lasciar essere prima di tutto se stessi, come uomini, prima che come padri; è un darsi il permesso di non essere perfetti. Abramo è educatore perché non si comporta da educatore: egli cerca un nuovo nome per se stesso, cerca di far chiarezza su quel che Dio chiede a lui. Non si preoccupa di consegnare nomi, comportamenti, insegnamenti utili ad Isacco. Vive e basta, seguendo quel che sente. Rischia la separazione più totale dal figlio, pur di ottenere autenticità da sé.
E qui Dio interviene. Abramo lascia andare Isacco: rinuncia ad un dogma per ritrovare il suo Dio.
1 Davide Maria Turoldo, Appena uno pensi.
2 Così scrive Valentina, in Preghiera, antologia di testimonianze raccolta da Oliviero Toscani per le Edizioni Paoline. A testimonianza di quanto lontane da molti adulti siano le parole dei figli, basti ricordare il giudizio del giornalista cattolico Messori a proposito di questo libricino: «Ridicolo e inutile. Piccoli sfoghi di adolescenti» (la Repubblica, 12 aprile 2000, p. 42).
3 Guccini in E un giorno, tratta dall’album Stagioni.
4 Davide, 14 anni, scrive: «Molte persone adulte vedono solamente quelle cose di cui possono parlare: mentre altre cose, di cui non sanno niente, fanno finta di non vederle» (Il tempo segreto, p. 44).
5 In Non vi sono fatti precedenti.
6 Ancora in Preghiera.