Tra fondamentalismo e democrazia
Per una riflessione critica
Una premessa
Dopo i fatti dell’11 settembre, inutile negarlo, si parla di fondamentalismo, ma si pensa all’islam, o se non proprio a tutto l’islam, almeno al radicalismo islamico (Bruno Etienne, L’islamismo radicale, Rizzoli 1988). E si dimentica che il fondamentalismo nasce storicamente nel mondo protestante statunitense alla fine dell’Ottocento, e che poi si diffonde a macchia d’olio, tanto che non ne risultano immuni né l’ebraismo né il cattolicesimo, come mostrano ad abundantiam Enzo Pace e Renzo Guolo (I fondamentalismi, Laterza 1998). Dietro le loro differenze favorite dalla grande plasticità della forma mentis fondamentalista, che si adatta alle più diverse situazioni c’è un minimo comun denominatore, ed è la centralità del nesso tra religione e politica. La società viene concepita come una totalità di credenti raccolti da un patto sacro e indissolubile intorno a valori irrinunciabili. Questi ultimi, poi, non sono ovviamente il frutto di scoperte umane più o meno antiche, ma hanno un’origine divina. Ciò che accomuna i movimenti fondamentalisti è esattamente la convinzione o la pretesa di possedere il monopolio della verità integrale dell’esistenza e della storia umane, dalla quale discendono regole ferree da realizzare sia nella vita privata sia nella vita pubblica. Il che mette immediatamente i movimenti fondamentalisti in rotta di collisione con la secolarizzazione delle società moderne.
Modernità e scomparsa del fondamento
L’avvento della modernità aveva dato libero corso alle contraddizioni generate dalla scomparsa d’un fondamento evidente dell’ordine sociale, tale da renderlo intoccabile e immodificabile. Ciò ha comportato il rischio d’occultamento del principio politico della società, che sembrava sempre più reggersi esclusivamente sul gioco reciproco degli interessi e dei calcoli. In questo senso, nel successo dei fondamentalismi contemporanei, uno specialista come Giovanni Filoramo (Millenarismo e new age, Dedalo 1999) ha potuto vedere un tentativo di fare i conti col caos della modernità, attraverso una reazione radicale alla riduzione dell’esperienza religiosa alla vita privata dell’individuo. Nuove forme di religione politica, come li definisce Antonio Elorza (La religione politica. I fondamentalismi, Editori Riuniti 1996), i fondamentalismi occupano dunque il vuoto di simboli e valori scavato e approfondito dalla frammentazione e dispersione della vita dei singoli. Il rimedio che propongono non è solo la rinnovata centralità della religione, ma l’accesso diretto ed esclusivo all’Assoluto. Il che di fatto significa l’identificazione dell’Assoluto con la concreta raffigurazione di esso rivelata nei testi sacri di cui ciascun movimento dispone, e che contrappone a quella degli altri.
Fondamentalismo contro democrazia
In questo contesto la violenza sacra è un ingrediente indispensabile, anche se non sempre si tratta di violenza in atto. Come le società primitive studiate dagli etnologi (da LéviStrauss a Pierre Clastres), così i movimenti fondamentalisti sono strutturalmente in stato di guerra, se non tra loro, nei riguardi del loro avversario costitutivo: la società secolarizzata e lo Stato più o meno pluralista che la governa senza riguardo per le leggi divine. Quel che conta non è la presenza attuale della violenza, ma la permanenza della sua possibilità come unico possibile rapporto con l’esterno. Criterio estremo della fedeltà dei singoli al carattere irrinunciabile e sacro dei valori comuni, la violenza funge così da collante supremo dell’identità del movimento, la cui stessa ragion d’essere diventa a questo punto il confrontoscontro con l’avversario che incombe da tutti i lati: la modernità, la secolarizzazione, ma soprattutto il dispositivo della democrazia. Infatti, quella dei fondamentalismi è certo una replica all’indebolimento dei legami sociali e alla scomparsa di valori comuni, conseguenze diffuse dell’individualismo moderno, a cui viene contrapposta la religione come unica funzione integratrice socialmente efficace. Ma dietro il rifiuto della modernità e della secolarizzazione e dietro il riferimento a forme rigide e totalizzanti di pratica religiosa, si lascia riconoscere come motivo scatenante l’accanito rifiuto della democrazia, e del suo fondamento ultimo: la responsabilità individuale e collettiva di fronte alle leggi. È questa la verità ultima della democrazia: il non avere accesso a nessun criterio assoluto che garantisca la società, e che stabilizzi una volta per tutte il fondamento della vita in comune, e quindi il dover elaborare faticosamente le leggi, i valori e i simboli che strutturano la convivenza.
L’elemento tragico della democrazia
Si spiega così il processo virulento imbastito da tutti i fondamentalismi contro il dispositivo simbolico della democrazia. Rimessa alla propria responsabilità, senza garanzie oggettive ed esterne, la democrazia consiste nel valorizzare la riflessione critica e l’interrogazione radicale, cioè in ultima istanza un atteggiamento mentale e pratico di messa in discussione illimitata e permanente del dato, dell’istituito, del tramandato. «In una democrazia come scrive Cornelius Castoriadis (L’enigma del soggetto, Dedalo 1998) il popolo può fare qualsiasi cosa, ed è tenuto a sapere che non deve fare qualsiasi cosa». Dunque, ci sono limiti che nessuna società democratica deve trasgredire, pena la sua decomposizione, ma questi limiti non sono definiti da nessuna parte. Questo elemento propriamente tragico della democrazia è ciò che i fondamentalismi s’adoperano a contrastare attivamente. E alla base del loro successo c’è quindi il terrore per l’instabilità, la nostalgia d’un qualche ancoraggio all’immutabile e all’indiscutibile che a qualsiasi prezzo dia ordine alla vita sociale.
Tra relativismo e universalismo lo spazio della creazione
Alle varie forme di fondamentalismo religioso, culturale o razionalistico non si tratta d’opporre un’esaltazione di gusti, preferenze e idiosincrasie soggettive. Non avrebbe senso giocare il relativismo individualistico contro l’universalismo, dal momento che entrambi ignorano deliberatamente l’unico vero orizzonte della nostra esperienza vissuta: l’oggettività storicosociale dei valori e dei significati, riconoscibili nei contesti concreti in cui si sono materializzati. Sono essi ciò che davvero conta. Infatti, ciò che quotidianamente incontriamo e su cui possiamo e dobbiamo prendere posizione, non è né l’incontrovertibile né l’assolutamente contingente. La pretesa del primo è esorbitante: dovrebbe trattarsi del fondamento unico, originario, assoluto. Ma ce ne sono troppi. Non si contano nella storia le teorie, le visioni del mondo, le religioni, le sette, e finanche le filosofie che ne hanno rivendicato l’appannaggio. Ma anche la pura e assoluta contingenza priva di agganci e legami, di cui ciascun singolo potrebbe ogni volta disporre ad libitum, è un’astrazione oltranzista e illusoria. Entrambe le prospettive presumono d’innalzare il singolo al livello dell’Assoluto o dell’Universale, fino a farvelo coincidere senza scarti o mediazioni: pretesa francamente eccessiva, smentita dalla frammentarietà del quotidiano, dalla settorialità del vissuto, dall’inappagabilità dei desideri. E così, quasi senza accorgersene, entrambe ricadono in un vecchio difetto della filosofia: quello d’assumere atteggiamenti prescrittivi o predittivi, da cui puntualmente la realtà si discosta. Eppure, la filosofia avrebbe una responsabilità immensa: rispondere alla sfida dei fondamentalismi riaprendo, come dice Pietro Barcellona (Le passioni negate, Città Aperta 2001), lo spazio della creazione. Rispondervi, dunque, riattivando la riflessione critica come «interrogazione che permette di distanziarsi dalla coazione a ripetere», e così «rende possibile nuovi eventi trasformativi».