Il Piave oltre i suoi miti

di Bresolin Alessandro

Il fiume e la “razza”

Simboli

Il bacino del fiume Piave nella storia italiana ha un’importanza simbolica enorme, non solo per la bellezza del territorio che attraversa o per le genti che lo abitano, ma anche per i ricordi legati alla grande guerra, perché, sulla linea del Piave, si è giocata la salvezza dell’Italia contro gli austriaci nella battaglia del Solstizio il 19/20 giugno 1918. Altrimenti viene ricordato per la tragedia del cedimento della diga del Vajont il 9 ottobre 1963 che ha causato oltre duemila morti con l’inondazione del paese di Longarone (BL). Un evento rimasto nella sostanza impunito, mentre a Longarone, il paese distrutto dall’inondazione e ricostruito con colate di cemento armato che nulla hanno a che fare con l’architettura alpina, già sono presenti mutamenti morfologici lungo la valle del Piave, e a Belluno il fenomeno di secca è diventato abituale. Successivamente si è continuato a sfruttare in modo intensivo la risorsa idrica, in un processo che da allora non si è arrestato, tanto che gran parte del letto oggi è spezzato da oltre cinquanta dighe e sbarramenti, e questo ha reso sempre più artificiale la vita del Piave. Nel 2000 l’O.N.G. World Commission on Dames (Commissione Mondiale delle Grandi Dighe, un’organizzazione scientifica che ha sede a Città del Capo) ha inserito il caso del Piave nel suo rapporto come simbolo di uno sviluppo scriteriato che ne ha messo a repentaglio la stessa sopravvivenza. Secondo l’organizzazione, che ha grande peso tra i governi occidentali, il suo alveo è sfruttato in modo drammatico ed esposto così a ciclici fenomeni di secca e di piene sempre più violente, poiché la scarsezza d’acqua ne rende più irruente la discesa a valle.

Il corso

Il Piave nasce nelle alpi carniche, a Sappada, e scende le valli del Cadore e del bellunese. Già qui il bacino soffre per l’inquinamento dei rifiuti chimici dell’industria ottica, che insieme a quella del legno tiene in piedi l’economia locale. Scendendo a valle il corso d’acqua si fa più calmo, il letto del fiume si allarga sui suoi ciottoli, e all’altezza di Pederobba (TV) un immenso cementificio si staglia a ridosso di un’oasi naturale, e in tutta l’area draghe e caterpillar sono una presenza costante. Non è un caso che la ghiaia del fiume che una volta serviva per l’edilizia locale sia stata ribattezzata "oro bianco". Oggi il letto viene scavato da società private che continuano a creare buchi tanto profondi da mettere a rischio le falde acquifere sotterranee, e nella sola provincia di Treviso si contano 300 cave. Mancando l’apporto solido sassoso, cominciano a verificarsi fenomeni di erosione che mutano il corso d’acqua.
Nell’area è forte la lobby dei pescatori, che per la sua cupidigia rischia di mettere a repentaglio l’esistenza della trota indigena, in estinzione. È succulenta, piccola e spinosa, ma poiché non soddisfa il fabbisogno dei pescatori, i consorzi di bonifica immettono con regolarità grandi e stoppose trote ibride che non si riproducono e sono molto voraci, divorano molto più degli altri pesci, mangiandone anche le uova.
Il Piave gira una curva attorno al rilievo del Montello, dove il letto raggiunge la larghezza massima di oltre tre chilometri in uno scenario ormai desertificato. Il tratto finale attraversa la campagna veneta, ma in questo sprint il fiume si svena ulteriormente della sua acqua a causa del moltiplicarsi dei prelievi idrici, molti dei quali illegali. Oltre all’uso civico ordinario, vi sono i prelievi dell’agricoltura con il sistema di irrigazione a "spaglio", ideato ai tempi della Serenissima e quindi obsoleto, costoso da mantenere e che comporta un notevole spreco d’acqua. Col tempo le aree irrigate sono aumentate, ma a questo non è coinciso un ammodernamento dei sistemi di irrigazione, anzi in pianura i prelievi industriali delle fabbriche che hanno cambiato il volto alle campagne circostanti hanno acuito questo conflitto per la risorsa idrica.
Nell’ultimo tratto del corso si entra nell’entroterra veneziano, e a San Donà di Piave si è nella zona della grande bonifica. Il fiume, deviato dai veneziani tra il 1641 e il 1664 perché entrava in laguna inondando ciclicamente la città, invase le campagne dell’entroterra rendendole palustri e malariche. A più riprese, nell’ottocento e nel primo dopoguerra, furono realizzate opere di bonifica. Un lavoro immane di drenaggio delle acque che riuscì a dare a queste terre una fertilità comparabile a quella dei polders olandesi.
Il fiume sfocia a mare tra Eraclea e Cortellazzo, luoghi in cui l’elemento dominante fino a quarant’anni fa era la duna sabbiosa. Queste oggi sono praticamente scomparse, tranne che in una riserva naturale sulla laguna del Mort a Eraclea. Questa parte di litorale soffre il fenomeno dell’erosione della costa, con l’acqua di mare che entra sempre più nella foce, avendo il fiume perso la sua forte ed irruente corrente.

Considerazioni sulla razza

L’uomo per natura si identifica con l’ambiente che lo accoglie, e le comunità che abitavano le sponde del Piave si riconoscevano tanto nel fiume da autonominarsi "razza Piave". Questo termine popolare non voleva indicare un etnia specifica come molti pretenderebbero, ma semplicemente un carattere duro, ospitale, abituato a una vita difficile e austera come poteva essere quella dei boscaioli e degli zatterieri che trasportavano il legno in laguna navigando il corso, dei contadini che vedevano minacciati i cicli della semina e del raccolto. La razza Piave è quindi un termine universale, che potrebbe applicarsi ad ogni popolazione fluviale o civiltà rurale disagiata.
Recentemente si è sviluppata una polemica intorno all’uso del termine razza Piave e alla difesa della razza Piave, voluto dal sindaco di Treviso Gentilini. L’obiettivo era fare leva sul senso di appartenenza dei veneti indigeni, bianchi e civilizzati, contro gli immigrati, scuri e pericolosi. Appare chiaro che la polemica poco aveva a che fare con un sentimento d’amore per il territorio e le sue genti, visto lo stato di salute in cui la razza Piave stessa lo ha ridotto a forza di prelievi, escavazioni e inquinamento.
Più che inorgoglirsi, bisognerebbe prendere atto che il fiume simbolo dei guasti creati dall’uomo è malato, e le sue genti non se la cavano tanto meglio. La priorità di una comunità ricca e altamente sviluppata dovrebbe essere la sua rivitalizzazione, cercando in sostanza di restituirgli l’acqua che necessita per la sua sopravvivenza biologica.