Sarno infangata
La ribellione della montagna
Sarno è un comune di poche migliaia di anime arroccato sulla pedemontana tra le provincie di Napoli, Avellino e Salerno, poco lontano dal fiume omonimo. Lo si raggiunge attraversando una verdeggiante piana alle spalle del Vesuvio famosa per i pomodori, le bufale da latte e il pregiato vino Lacryma Christi. Il suo nome però è legato ad un evento tragico, essendo stato uno dei paesi più colpiti dall’alluvione del 5 maggio 1998, quando una violenta frana scosse il Monte Saro. Quel giorno dal monte si staccò una massa di terra che invase prima la frazione di Episcopio e investì poi viale Margherita e via Avignente, due strade che conducono al centro di Sarno. Dieci minuti dopo, alle 19.45 di sera, la seconda ondata, con i quartieri sopraffatti dalla frana e tutto il paese letteralmente invaso dal fango. Era caduta una fetta di montagna, creando una voragine che sembrava il letto di un fiume essiccato. Un evento che spezzò la vita a 150 persone, e una volta conclusasi la prima fase dei soccorsi, si contavano oltre mille sfollati e 154 edifici distrutti, 397 inagibili, 126 parzialmente inagibili per un totale di 587 edifici non utilizzabili: una catastrofe per un piccolo paese che viveva di agricoltura.
L’ondata di fango innescata dalle frane interessò tutta la fascia pedemontana, quei comuni già colpiti dalla frana come Quindici, Siano, Bracigliano, Episcopio di Sarno e le località sarnesi Tre Valloni e Vallone S. Lucia, ma anche municipi ancora intatti come Montoro Inferiore, Palma Campania, San Felice a Cancello. Tra le cause del disastro, oltre al naturale assestamento di una montagna fradicia dopo giorni di pioggia torrenziale, il dissesto creato dall’uomo, con edifici costruiti abusivamente in aree fragili dal punto di vista morfologico. Col tempo la marea di fango cominciò lentamente ad essiccarsi, ma oggi l’area è definita dai tecnici “ad alto rischio a franare in occasione di eventi pluviometrici eccezionali”, e la linea rossa comprende un’area che va dalle pendici del monte Saro sino a giù, all’entrata principale del cimitero.
Cinque anni vissuti pericolosamente
Da allora a Sarno, Quindici, e in tutti i comuni pedemontani, appena riprende il periodo delle pioggie, torna la paura. I lavori in messa sicurezza della montagna non sono partiti con velocità, e gli unici effettuati sono quelli di ruscellamento delle acque superficiali e opere di canalizzazione. Ma nel 2001 la situazione vedeva mille miliardi stanziati, di cui solo 72 spesi; molti sono stati i ritardi nella ricostruzione, i lavori sbagliati, le opere inutili, come la realizzazione di un canale tra le case, in un posto dove la frana non era mai arrivata e che ha provocato la distruzione di una zona coltivata a nocelleti ed albicocche; in molti altri punti invece non sono stati nemmeno rimossi detriti, macerie, carcasse d’auto e fango secco.
La cosa più grave è che in quelle stesse aree dove il fango ha travolto tutto, si continua indisturbati a costruire abusivamente case in zona rossa. Tra cemento, abusivismo e sprechi, il succo della questione sta nel fatto che gli abitanti stanno ancora aspettando i soldi per far ripartire le loro vite, ricostruire la propria casa o riavviare l’attività commerciale. È evidente che non si possono ingabbiare tutte le montagne per cui si dovranno percorrere altre strade, compresa quella di evacuare le persone dai luoghi a rischio, ma molti ancora non sanno se potranno ricostruire dove stavano prima o se saranno costretti a sloggiare.
Territorio a perdere
Ora per il disastro di Sarno i soldi e gli strumenti ci sono, ma con allarme si avverte che sono maturi anche i tempi per l’apertura di una nuova stagione “imprenditoriale”, quella della camorra dei colletti bianchi, che punta sui nuovi rilevanti investimenti pubblici. Gli appalti vengono assegnati con ribassi elevati e subappalti senza controllo riguardo alla qualità del materiale utilizzato. A quattro anni dal disastro l’unica opera di pubblica utilità in costruzione è l’ospedale “Villa Malta”, assegnato ad una ditta dell’entroterra vesuviano che ha vinto la gara d’appalto con oltre il 40% di ribasso. Il rischio concreto è che, oltre al lavoro nero, la malavita si infiltri nei cantieri. In questo contesto il 9 maggio dello scorso anno le forze dell’ordine hanno portato a termine un’operazione che ha visto 18 indagati per associazione camorristica nell’ambito della ricostruzione a Sarno. Ma se qualcuno si era illuso che bastasse, non ha fatto i conti con le intenzioni del governo, che, fissando le nuove regole per l’affidamento degli appalti delle grandi infrastrutture con la “Legge Obiettivo”, ha depotenziato gli strumenti di controllo sul territorio. Su lavori per importi massimi di 500 mila euro non è più previsto l’intervento dell’autority di vigilanza e, di conseguenza, nemmeno della Procura nazionale antimafia, mentre per subappalti che non superano la quota del 2% del totale dell’opera o il tetto dei 100 mila euro, non vi sarà obbligo di autorizzazione né controlli da parte delle autorità. In questo modo la malavita non avrà più bisogno di coperture e potrò infiltrarsi agevolmente.
E i cittadini? I mass-media hanno spesso dipinto la zona a forte connivenza camorristica, e questo atteggiamento superficiale non rispetta una comunità sofferente che a fatica sta cercando di far sentire la propria voce attraverso una serie di proteste e denuncie, dei sindacati confederali e delle associazioni di base. I “Comitati Riuniti” e i membri dell’associazione “Rinascita” hanno presentato un dossier sulla ricostruzione e sulla messa in sicurezza della montagna che non è partita. Altri hanno proposto azioni concrete, come il reinvestire in opere di pubblica utilità e di prevenzione i soldi che vengono risparmiati grazie al ribasso eccessivo degli appalti. Va da sé che le denuncie non bastano a far cambiare la politica ambientale e intraprendere seriamente la lotta al dissesto idrogeologico. Soprattutto manca un progetto globale che riguardi il rapporto tra l’uomo e la montagna, al di là di uno sfruttamento scriteriato del territorio.