Nuove tradizioni e identità veneta

di Bresolin Alessandro

Per dimenticare il futuro

La storia attraverso i dépliant

Girando i paesi della provincia veneta nel periodo tra luglio e settembre, si scopre un proliferare di nuove feste e tradizioni che si rifanno alla cultura popolare. Ciò accade in un’epoca in cui gran parte della socialità popolare spontanea, fatta di feste e sagre di strada e quartiere, si sta perdendo. Cambiati radicalmente i ritmi di vita dopo trent’anni di ininterrotto boom economico, oggi sono gli assessorati ai beni culturali ed al turismo a promuovere una lunga lista di feste in costume, giochi a personaggi viventi e rappresentazioni a carattere storico. Per dare un idea di quanto questo fenomeno sia dilagante, basti pensare che nella sola provincia di Treviso le manifestazioni storiche in costume organizzate con il contributo della regione Veneto sono diciotto, nei soli cinque mesi da maggio a settembre. La rassegna, dal nome “Treviso Marca Storica”, propone dieci Palii e otto rappresentazioni tradizionali.
Mi sono concentrato su “Il Palio del vecchio mercato” a Montebelluna, “La Pissota” a Nove, “La Ballata del millennio” a Bassano del Grappa, “La Cuccagna dei Morosini” a Cartigliano come esempi rappresentativi di questa tendenza. Nei diversi comuni ho chiesto documentazione storica riguardo a queste manifestazioni, ma in tutti e quattro i casi mi è stato consegnato un deplian. Anche insistendo per saperne di più, oltre ai dépliant non riesco ad andare. Così sfoglio le pagine di questi opuscoli stampati dalle diverse Pro Loco, distribuiti gratuitamente nei negozi e nei bar.

A mo’ d’esempio: Montebelluna e altri

“Il Palio del Mercato Vecchio” a Montebelluna nasce nel 1990, e sembra la brutta copia del celebre Palio di Siena rivisto in salsa veneta. Viene rievocata l’epoca in cui i mercanti provenienti dai vari paesi del lombardo-veneto attraversavano quel territorio tra prealpi e pianura per portare i loro prodotti al castello posto sul colle di Mercato Vecchio. Questa fortificazione, protetta nel XII° secolo dal diritto feudale del vescovo, era collegata alla roccaforte di Montebelluna ed aveva la funzione di segnalare l’arrivo delle orde barbariche provenienti dalla valle del Piave, garantendo sicurezza e libero scambio. Il Palio ripercorre il tragitto di questi commercianti, antenati dei nostri imprenditori, dal piano del Municipio alla sommità del castello, e a sfidarsi sono undici contrade con costumi, simboli, colori e carretti carichi di merce. Chi arriva prima vince 5 milioni di lire (in gettoni d’oro).
In provincia di Vicenza, Nove è un paese conosciuto per i suoi ceramisti, e da un decennio ha scelto di rievocare un gioco popolare simile alla tombola, “La Pissota”, nella quale i numeri sono sostituiti da 64 figure che rappresentano simboli legati alla vita del tempo. Troviamo el pan, el marteo, el portazerla, el campanie, l’impaiacareghe, el soe… e insieme componevano un quadro. Lo spettacolo messo in scena consiste nella ricostruzione teatrale di una situazione da filò contadino, e nel gioco in cui ogni figura del quadro è composta da attori in costume. In un “dolce e lirico” dialetto, assistiamo alla maccheronica rievocazione dei tempi che furono e alla codificazione moderna di ciò che potevano essere i valori della civiltà contadina.
Nel 1998 ricorreva il millennio della fondazione della città di Bassano del Grappa, così l’assessorato alla cultura aveva dato vita ad uno spettacolo in costume concepito come un evento unico, “La Ballata del millennio”, ma quest’anno siamo già alla terza edizione. Per due giorni le vie e le piazze del centro storico accolgono otto scenografie diverse che ripercorrono, nei luoghi dove sono realmente accaduti, otto eventi che hanno segnato la storia della città: la nascita della città fino agli Ezzelino; il processo e l’impiccagione nel trecento di un nobile locale, accusato di tradimento dai Carraresi che dominavano la città; un mercato del 500 all’epoca dei Da Ponte, che testimonia l’operosità innata dei bassanesi; la saga dei Remondini, famiglia di imprenditori ed artisti stampatori; l’arcadia nel settecento sulla riviera del Brenta tra feste e caffè letterari; il giovane Napoleone a Bassano nel 1796 in guerra contro gli austriaci; la prima guerra mondiale con la ricostruzione dell’ospedale militare; la resistenza con i tragici episodi del rastrellamento del 20-21 settembre 1944, e l’impiccagione di 31 persone lungo viale dei Martiri da parte dei nazifascisti. La filosofia che anima gli organizzatori è ben riassunta nello slogan “la storia che commuove”, come spiegato dagli organizzatori ai giornali.
Poco lontano, in una delle aree a più forte concentrazione d’impresa delle campagne vicentine, Cartigliano, dal 1995 esiste “La Cuccagna dei Morosini”. Si tratta di una storia, una fiaba e un gioco recitati in costume e in dialetto davanti al palazzo “Morosini Cappello”. Viene ripercorso una vasto periodo che va dai romani agli Ungari, dagli Ezzelino da Romano fino ai nobili veneziani Morosini. In una scenografia magico-realistica si rievoca a grandi quadri la vita popolare contadina fatta di stenti, finché appare un personaggio fantastico detto “Busia dei sognatori”, che riesce a trascinare una folla di miserabili alla ricerca delle fortune del Palazzo della Cuccagna, di cui dice di possedere una mappa. Dopo numerose difficoltà, la folla con il suo poco credibile vate arriva al palazzo, ma proprio allora “Busia” muore stremato dalla fatica. Così, mentre per i miserabili il sogno di riscatto rimane un sogno, lo spettacolo ha il suo lieto fine con le sfarzose nozze della figlia dei Morosini, Rosina, vinta in una sfida al gioco dei dadi dal bel pretendente Tonin. Al gioco finale partecipa anche il pubblico pagante, e il fortunato vince un premio.

Far quadrare i conti con il passato

Ogni dépliant racconta una storia diversa e segue una sua impostazione. Se Bassano si vuole epica-culturale, Cartigliano punta sull’onirico-fiabesco, Nove alla cultura artigiana della ceramica, mentre Montebelluna è strettamente mercantile, visto anche il significato stesso del Palio. Tutti hanno però due cose in comune: l’aspetto linguistico e quello commerciale.
La lingua usata ha una serie di espressioni didascaliche che devono spiegare il senso delle manifestazioni, che hanno lo scopo di “consegnarci alle nostre tradizioni”, “solennizzare coralmente mille anni di storia”, di “rileggerla traendone identità e nuova fierezza”. Più che l’amore per la cultura popolare, da questi toni aulici traspare la volontà di celebrare il proprio passato legandolo ad una spettacolarizzazione consumistica che non ci dice niente di autentico su quello che potevano essere i rapporti tra nobiltà veneziana e contadini, tra villici, mercanti e feudatari. Viene proposta una visione del passato priva di tensioni, con il popolo in armonia con le classi dominanti, in cui la soluzione dei nostri problemi sta all’interno della comunità, dall’esterno vengono illusioni o pericoli.
Il nazionalismo come fenomeno si manifesta quando un popolo prende coscienza di sé parlando la stessa lingua, pregando lo stesso dio e sentendo di avere una passato comune. Non deve sorprendere quindi se la storia viene qui relegata a narrazione approssimativa e superficiale, perché serve solo a far capire agli spettatori di appartenere allo stesso ceppo. L’importante è capire questo, il resto è intrattenimento.
Questi depliant sono infarciti di inserzioni pubblicitarie, gran parte dell’economia locale si ritaglia un’inserzione tanto che il rapporto di pagine tra pubblicità e testo è di nove a uno. Questi eventi sono quindi anche delle vetrine attorno a cui ruotano organizzazioni che vanno dalle pro loco a banche, aziende, volontari, commercianti e assessorati. I profitti sono in cima a questa logica identitaria, la tradizione diventa azienda.
Se ne deduce che gli scopi dei promotori di queste manifestazioni (assessorati comunali, provinciali e regionali), hanno un triplice scopo: divertire e creare consenso; aumentare gli utili; creare un’identità, far si che la gente si senta parte di qualcosa. Il problema è che questo tipo di identità da un lato è morta, con la fine della civiltà contadina, dall’altro intesa come vogliono gli assessori non è neanche mai esistita, perché la cultura popolare viveva di vita propria, non aveva bisogno di spettacolarizzarsi.
Sta di fatto che queste manifestazioni diffuse in ogni paesino sono un fenomeno di massa, quindi possono realmente trasmettere e forgiare un ideale di comunità, di appartenenza. Peccato che tutto questo sia lontano anni luce da ciò che accade oggi nelle nostre città, nelle campagne e zone industriali, dove l’immigrazione ridisegna i contorni dell’identità pur formandone una nuova. Il paradosso che sta vivendo il Veneto, è che mentre dovremmo cominciare a capire chi siamo oggi, la paura di aprirsi al mondo ci sta facendo sprofondare in un pericoloso kitch storico e identitario. Questo genere di iniziative appartiene a una mentalità diffusa nella classe politica e nella società che segna una linea di demarcazione tra noi e loro, che utilizza in modo più o meno consapevole il dialetto, le feste, i valori tradizionali, la religione e la storia per spiegare chi sono i veri veneti, come sono, cosa fanno e come si devono comportare.