Le premesse “etiche” della convivenza e lo studio dei diritti religiosi
Il punto di vista dell’altro
Nell’introdurre la recente edizione italiana di L. Massignon, L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam (Milano, Edizioni Medusa, 2002), il curatore dell’opera, Domenico Canciani, riferisce in modo illuminante di una significativa consonanza tra le riflessioni del celebre islamista francese, finalmente tradotto anche nel nostro paese, e il pensiero di Simone Weil.
Scopriamo in tal modo che entrambi «si trovano totalmente d’accordo» sulla definizione di ciò che risulta «fondamentale per il dialogo tra le religioni»: per essi, infatti, «dialogare significa eleggere il punto di vista dell’altro» e «conoscerlo dall’interno», senza temere per la propria identità, e nella consapevolezza che «il confronto rafforza il sentimento di fedeltà alla propria fede».
In altre parole, per evitare che i tentativi di comunicazione interculturale trovino un decisivo ostacolo nell’automatica ed epidermica registrazione delle differenze religiose, risulta essenziale «entrare nel sistema dell’altro senza restrizione alcuna», e in particolare «viverlo con colui che ve lo espone», per «capire e sposare mediante il pensiero le sue rivendicazioni di giustizia».
Il fatto straordinario, peraltro, si cela non tanto nella profondità di affermazioni così astratte dall’apparire erroneamente generiche e (per questo solo) vagamente condivisibili da tutti, quanto piuttosto nella circostanza che, alla prova dei fatti, esse non vengono affatto condivise e che Massignon, viceversa, ha effettivamente sperimentato l’intima verità delle proprie convinzioni: il suo ritorno al cattolicesimo, dopo anni di agnosticismo, non avviene nella quiete rassicurante delle liturgie domestiche, ma si accende, come ricorda lo stesso Canciani, «per l’intercessione e la preghiera di alcuni pii musulmani mentre svolge una perigliosa missione archeologica e ricerca le tracce del mistico sufi alHallâj a cui consacrerà una parte cospicua delle sue fatiche di studioso e con cui finirà in qualche modo per identificarsi».
Non ci si può nascondere che la situazione è davvero curiosa, poiché, almeno ai giorni nostri, può sembrare inaudito e inusuale che uno studioso occidentale, seppur particolare e sensibile, ma comunque cresciuto nel clima positivista della Francia della fine dell’Ottocento, giunga ad individuare nell’esperienza tragica di una crisi religiosa — per di più sbocciata nel momento in cui si trova, per così dire “ospite” dell’ “altro” non cristiano — l’obiettivo di una finale e matura riflessione sui presupposti irrinunciabili della propria fede.
Ora, se l’invito all’intima comprensione di visioni del mondo alternative e apparentemente dissonanti esprime un’ispirata esortazione verso una lettura etica dei conflitti culturali e religiosi, con conseguente e coerente approccio nella risoluzione dei potenziali fraintendimenti che si generano dall’incontro tra le diverse tradizioni, si tratta di comprendere come sia possibile raggiungere una così forte “coscienza” attraverso l’ausilio critico degli studi giuridici.
La conoscenza del “sistema” dell’altro
A margine delle sopra indicate constatazioni, infatti, un dato primario può considerarsi comunque acquisito, dal momento che l’imprescindibile condizione di ogni dialogo può efficacemente individuarsi proprio nella conoscenza del sistema dell’altro, ovvero — diremmo noi — nell’approfondimento degli elementi caratteristici che ne rappresentano i presupposti costitutivi, connotandolo e orientandolo quale autonomo universo di riferimenti pratici e ideali (e quindi quale vero ordinamento giuridico).
Anche a questo proposito, allora, è necessario richiamare un’altra pubblicazione recente, poiché alla basilare esigenza di conoscenza e di comprensione di cui si è detto sinora risponde brillantemente il testo di Silvio Ferrari (Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam a confronto, Bologna, Il Mulino, 2002), che si sforza «di rintracciare lo spirito di tutti i diritti religiosi» attraverso l’esame degli “ordinamenti giuridici” formati dal diritto ebraico, dal diritto islamico e dal diritto canonico.
Sin dall’inizio della trattazione si apprende di come il superamento delle interpretazioni moniste del diritto (originariamente inteso soltanto come prodotto esclusivo dello Stato) abbia permesso di riconoscere «piena cittadinanza, nel mondo della ricerca (…), alle tradizioni giuridiche religiose, poste su un piede di parità con quelle secolari», e di come parallelamente si sia operata la classificazione dei “sistemi religiosi” tra i “sistemi giuridici” propriamente detti.
Appare interessante, in proposito, la rassegna delle opinioni espresse dagli studiosi, dalle originarie e “classiche” posizioni eurocentriche (che in via residuale contemplavano anche «altre concezioni dell’ordine sociale e del diritto») fino alle descrizioni più recenti, per le quali dovrebbe parlarsi di «ordinamenti a base consuetudinaria religiosa».
È proprio da quest’ultima illustrazione, tuttavia, che si può comprendere l’importanza della ricerca svolta da Ferrari e la sua coerenza con la necessaria premessa “etica” di cui si può trovare testimonianza nell’esperienza di Massignon, poiché, come ricorda l’Autore, “il punto” centrale per qualificare le tradizioni giuridiche religiose è quello di “valutare” se, «negli strati profondi e caratterizzanti di ciascun ordinamento», i diritti prodotti dalle religioni rispondano a “principi e regole” analoghi, al di là della semplice e potenzialmente paralizzante ricognizione del carattere culturalmente connotato di qualsiasi sistema giuridico.
Il “consenso etico” tra le culture e la convivenza
È chiaro che con ciò non si vuole sostenere che, in funzione di un obiettivo etico di potenziale consenso tra culture religiose differenti, la scienza comparatistica debba orientarsi ad evidenziare le consonanze essenziali che rendano possibile il raggiungimento di un simile risultato. Una proposizione siffatta equivarrebbe a negare l’autonomia del diritto comparato e la sua esclusiva finalità scientifica.
Ciò che si vuole ribadire, tuttavia, è che l’ineludibile passaggio critico attraverso la neutralità conoscitiva della metodologia comparatistica rivela i dati positivi di una consapevolezza etica che all’essere cristiano è indissolubilmente legata e che merita, per chi si riconosce tale, di essere ulteriormente coltivata come paradossale ragione identitaria e multiculturale allo stesso tempo.
Se, da un lato, Massignon scopre le ragioni della propria fede nell’apostolato di un mistico musulmano, poiché nella sua testimonianza è viva l’intenzione di «far trovare Dio a ciascuno nel fondo della propria anima, entrando come ostaggio dentro l’altrui necessità confessionale», dallo studio dei diritti religiosi si apprendono la ragione e la struttura di tale “necessità”, ponendosi con ciò le basi per il discernimento progressivo di esperienze comuni a tutti gli uomini.
Concludendo, e riprendendo autorevoli e note osservazioni (P.C. Bori, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova, 1995, 101), può dirsi che nel grave momento attuale «il compito più urgente non è teologico, ma quello di superare la separazione tra etica e politica e di contribuire all’elaborazione di un’etica che, offrendo la base consensuale e tendenzialmente universalistica della moderna irrinunciabile cultura dei diritti, sia l’alveo in cui la pluralità delle tradizioni, accolta criticamente, converga in un complesso di convincimenti fondamentali».