Fatemi vivere o fatemi morire,ma non seppellitemi vivo
La speranza non sta nel futuro, ma nell’invisibile
«Chiunque abbia il potere di farvi credere
delle assurdità, ha il potere di
rendervi complici d’ingiustizia».
[Voltaire]
«Moltissimi danno denaro ai mendicanti
per la stessa ragione per cui pagano un callista:
poter camminare in pace».
[Bernard de Mandeville]
Il 3 febbraio 1943, nelle acque della Groenlandia, la Dochester, colpita da un siluro tedesco, stava per affondare. Chi non aveva il salvagente era perduto.
Nella lotta selvaggia per la vita, racconta un testimone, quattro uomini rimasero calmi e consapevoli, quattro cappellani militari: un rabbino, un sacerdote cattolico e due pastori evangelici. Si erano legati l’uno all’altro per non cadere nella coperta viscida.
Tutti e quattro avevano avuto la loro cintura di salvataggio, ma ciascuno aveva offerto la propria ad un uomo dell’equipaggio.
Allorché la Dochester s’impennò, prima di colare definitivamente a picco tra i flutti, si videro i quattro per l’ultima volta. Stavano ritti ed immobili tenendosi per mano, addossati contro il parapetto: pregavano.
La cintura di salvataggio
Su questo evento drammatico, eppure carico di speranza, Ernesto Balducci, pochi giorni prima di morire, scriveva una pagina, indirizzata non solo alle chiese, ma a tutte le religioni presenti nel mondo, per dichiarare una priorità che oggi appare assoluta: «Da quando ebbi notizia del fatto, la catena dei quattro uomini di Dio è entrata a far parte del mio mondo interiore: è come l’orizzonte simbolico in cui mi imbatto quando mi volto indietro per fissare il momento in cui cominciò ad inabissarsi il passato di cui sono figlio e prendere forma quel futuro a cui non riesco ancora a dare un volto. Nel gesto dei quattro non c’è solo un atto individuale che più di ogni altro avvicina l’uomo a Dio, c’è la fine dell’età delle molte religioni, la fine volontaria che ha partorito l’unica religione all’altezza della nuova età della nostra specie: la religione che assume come valore sommo la salvezza dell’uomo anche mediante il dono della vita».
«La novità della situazione storica continua Balducci è che l’umanità si trova raggruppata in un breve spazio nel quale si stanno consumando le pareti di separazione tra le molte etnie e sotto una medesima minaccia di morte. Che senso avrebbe, mentre la nave va a fondo, che le religioni continuassero a discutere tra di loro per rivendicare il titolo dell’universalità? Se davvero esse vogliono rendere onore a Dio, si liberino dalla cintura di salvataggio e accettino il rischio comune…
La minaccia di morte, che investe tutti i popoli della terra, ci sta venendo incontro in vari modi: come una selva di missili, o come catastrofe dell’equilibrio ecologico, oppure come irruzione caotica dei popoli della fame dentro lo spazio in cui banchettano i popoli dell’opulenza. In una situazione siffatta, ogni giudizio che non tenga conto di questa unità indissolubile del destino dell’uomo è già per questo immorale».
Avvolti dalla menzogna ma non travolti
Siamo tutti avvolti da una grande menzogna. Trascorrono i mesi e sempre più chiare appaiono le falsità che si sono vendute sulla guerra in Irak. Una guerra che ha sconvolto l’ordine mondiale, esautorato l’ONU, ferito il diritto internazionale, creato un fossato tra l’Europa e gli Stati Uniti, suscitato nel mondo islamico propositi di rivincita contro l’Occidente invasore.
Il vero obiettivo degli Stati Uniti non è quello di ridurre il terrorismo, ma piuttosto quello di utilizzarlo ormai come argomento moralmente e politicamente vincente per organizzare il mondo nel modo per loro più conveniente. Lo invocano, dunque, per sottrarsi in maniera unilaterale ai trattati che non sono di loro gradimento, per imporre la giustizia sommaria sulla Terra, o per allontanare fastidiosi concorrenti commerciali.
Capiamo ancora meglio, oggi, quello che Jesse Helmys, dal 1995 al 2001 presidente della Commissione per gli Affari esteri del Senato americano, diceva: «Noi siamo al centro del mondo e intendiamo restarci… Gli Stati Uniti devono dirigere il mondo portandovi la fiaccola morale, politica e militare del diritto e della forza e servire di esempio a tutti i popoli».
La guerra non è però solo quella delle armi, ma anche quella quotidiana che si combatte attraverso i media di tutto il mondo.
Anche il nazista Hermann Goering sapeva bene che «i popoli possono essere sempre ricondotti al volere dei capi… Basta convincerli che stanno per essere attaccati, e accusare i pacifisti di antipatriottismo e di esporre il paese al pericolo. Funziona sempre così, ovunque».
Non è detto che funzioni sempre, anzi, la storia ci insegna che nessuno è mai riuscito a farlo funzionare a tempo indefinito. Ricordiamo il biblico gigante dai piedi d’argilla del profeta Daniele… La strategia della menzogna, più che una manifestazione di forza rappresenta una crepa nell’egemonia militare, economica e politica, ed è segnale di una fragilità.
Ne è una conferma drammatica, in questi giorni, l’esplosione del caso Parmalat. Uno stillicidio di crimini contro l’onestà e il buon senso, imbrogli e irresponsabilità dimostrati da imprenditori, banchieri, politici e funzionari dello Stato col rischio di far inceppare perfino il sistema economico.
È nostro dovere di uomini liberi ribellarci a questo deplorevole stato delle cose. L’Occidente è ormai entrato in una stagione che rivela la debolezza intrinseca della via imboccata. È un’immensa struttura dissipatrice che assorbe da ogni angolo del pianeta energia viva e la restituisce degradata.
È convincente Zigler quando scrive: «La globalizzazione disegna così sulla faccia della terra una specie di scheletrica rete che unisce alcuni grandi agglomerati, al di fuori della quale si assiste all’avanzata dei deserti. Una serie di isolotti di prosperità e di ricchezza che fluttuano su un oceano di popoli in agonia».
La globalizzazione americana non ha globalizzato il mondo. Lo ha spaccato, lo ha frazionato. Infatti l’opulenza non può più durare senza crimine. L’emancipazione dei popoli e la permanenza del suo modello di vita non possono conciliarsi.
La nozione di sviluppo
Perché la parola sviluppo ha avuto un successo così grande, tanto da convertirsi in ideologia dominante? Certamente è una parola pervasiva e lo sviluppo è diventato sicuramente un mito intangibile, una realtà sulla quale ovviamente siamo tutti d’accordo.
Lo sviluppo è sfuggito al nostro controllo. Funziona da sé, al di fuori del controllo dei singoli e della società.
Non possiamo dire che tutti coloro che stanno al potere sono dei criminali o degli egoisti. Vorrebbero modificare la situazione, ma sfugge al loro controllo, anche del dittatore più rigido. Pensavamo con Bacone che sapere è controllare, ma il cancro ha prodotto metastasi così numerose che ci rendiamo conto che non possiamo far niente.
«Se cavalchi una tigre afferma un proverbio indiano non puoi scendere, altrimenti la tigre ti divora»… e noi stiamo cavalcando una tigre.
La nozione di sviluppo è nata dopo la seconda guerra mondiale, con la visione di un terzo mondo definito “sottosviluppato”. Fu allora che si sono creati due modelli: quello di tipo sovietico, comunista e quello di tipo occidentale, capitalista. Due fallimenti.
Il grande sociologo francese Edgar Morin afferma che nel rapporto tra etica e sviluppo, lo sviluppo è antietico.
Infatti, quando si mettono in azione piani di sviluppo quello che generalmente si provoca è la distruzione di tutte le comunità e solidarietà tradizionali di quella società, senza creare le condizioni per un nuovo tipo di solidarietà. Disintegrazione della solidarietà e non creazione della responsabilità. Con la nostra visione occidentale della specializzazione, della separazione tra azione e pensiero, al massimo possiamo trovare una responsabilità relativa in un settore limitato, perdendo di vista la visione dell’insieme. Se si perdono responsabilità e solidarietà, che sono le due fonti dell’etica, emerge una condizione immorale. Per questa ragione nei paesi che chiamiamo “in via di sviluppo” c’è una corruzione terribile, perché abbiamo sviluppato l’egocentrismo come linfa del profitto.
Va messa in discussione la nozione di sviluppo, immaginando un nuovo inizio, per non andare incontro alla catastrofe generale, che è la catastrofe dello sviluppo di una scienza, di una tecnica, di un’economia fuori controllo.
Se c’è oggi una differenza fondamentale tra le persone, una differenza anteriore a qualsiasi credo religioso o politico, è proprio quella che passa tra coloro che non si vogliono arrendere a questa situazione, resistono nella ricerca di nuovi sentieri e chi invece vi si abbandona totalmente ignorando le conseguenze.
A questo punto occorre affermare con decisione che un’economia sganciata dall’uomo, vista solo come applicazione delle legge del più forte, per cui il pesce grande mangia il pesce piccolo, per cui va cercato il massimo di profitto, è falsa. Un’economia umana deve trattare degli uomini e dei loro bisogni, non delle cose (merci) e delle loro leggi.
La speranza nell’invisibile
A tutti coloro che non s’accorgono del naufragio e che difendono la forma attuale di economia o che sostengono che la tecnologia ha fatto il possibile per migliorare la vita dei popoli, vorrei chiedere: come mai un terzo dell’umanità non ha l’acqua potabile? Come mai nel mondo si spende settanta volte di più per un soldato che per uno studente? Come mai per il mantenimento di un cane in Occidente si spende 17 volte di più che per un bambino di strada brasiliano? La storia non è stata mai legata alla crescita della produzione, al progresso della tecnica, che marca lo sviluppo delle comodità e conseguentemente spegne lo spirito. La storia non è nemmeno lotta di classe che sarebbe poi una guerra infinita. La storia è un avanzare lento, invisibile agli occhi umani, della giustizia e della pace e i depositari, spesso incoscienti di questa energia vitale, sono i poveri.
Quello che ci manca è la fiducia in noi stessi. Siamo prigionieri di un pensare quantitativo e scientifico, per cui un individuo, o un’associazione in un contesto mondiale non serve a spostare alcun equilibrio. Si tratta di un pensiero falso e lo fa chi ha smarrito il senso dell’unicità di ciascuno. Ramon Panikkar ripete spesso: «La speranza non sta nel futuro, ma nell’invisibile».
La vita non è in funzione del tempo: può essere più piena e significativa una vita breve che una che si protrae molto a lungo. Vale la pena aver vissuto e vivere, non perché il futuro sarà migliore (nessuno sa come sarà), ma perché nel presente si scopre una luce nuova, un nuovo colore, riservato agli occhi di coloro che amano.
Pove del Grappa, 29 febbraio 2004