Rwanda dieci anni dopo
La mostra nasce dall’esperienza vissuta come volontario in servizio civile per la Caritas italiana. La passione per la fotografia mi ha portato a fotografare i luoghi del genocidio, le carceri comunali nel sud del Rwanda ma, soprattutto, vivendo a stretto contatto con le persone, a ritrarre scene di vita quotidiana. Ho voluto ritrarre l’espressione della tremenda umanità che in Rwanda si respira a pieni polmoni, catturando volti e luoghi di cui conosco i nomi, la storia e di cui continuo a condividere in parte le sofferenze. La mostra vuole raccontare la situazione del paese a dieci anni da quei tragici fatti del 1994, cogliendo sguardi e situazioni di un popolo che desidera la pace.
Mercati
Ancora una volta mercati, ancora donne forti e orgogliose, ancora scatti rubati, ancora una volta si rompe la diffidenza, la distanza fra me e queste donne facendo leva semplicemente su un sorriso, sull’innocente vanità che ogni donna porta dentro.
Queste donne sono fra le più povere al mondo; vivono vendendo manioca, pomodori, pesci, fagioli, riso… Sono le custodi di mille piccoli segreti condivisi al mercato, i loro sorrisi sono di complicità e compiacimento. Così entro in contatto con quegli sguardi, quei gesti ripetuti migliaia di volte, quelle donne con la D maiuscola… Così mi aprono il loro cuore, mi lasciano rubare le loro immagini e intravedere i loro segreti.
Cabaret
I cabaret sono i tipici locali dove la gente si riunisce per mangiare, bere, scambiarsi informazioni. Sono un po’ i nostri bar. Non è frequente trovare bianchi in questi luoghi. È qui, come nei mercati, che viene la gente comune, il popolo. Come capire un rwandese o un burundese se non si è mai stati qui? Come avere compassione di qualcuno che non si conosce? Se esiste un Dio che ha creato questa umanità, l’ha creata a sua immagine e somiglianza, multicolore, multietnica, dolce, violenta, ricca, povera, intelligente, taciturna, socievole, imbrogliona, falsa, genuina, affamata, generosa, piccola, malata, stanca, coraggiosa, poetica.
È dovere di ognuno, secondo i suoi mezzi, conoscere questa umanità, esplorare le sue viscere per poter conoscere se stessi ed un eventuale Dio. Non conoscersi e rimanere ignoranti è una delle colpe più grandi… e questo non ci verrà perdonato.
Kundo, storia di un futuro
bambino di strada
Eccomi sul piccolo matatu che mi porta a Bujumbura. Alla frontiera Rwanda/Burundi sale a bordo un ragazzetto di 10/11 anni. Non sembra molto diverso dalle migliaia di bambini che si incontrano qui ogni giorno. Si addormenta quasi subito sulla mia spalla.
Dopo il confine la strada scende per circa 120 km. Dalle colline rwandesi si arriva ad un vasto pianoro, dove si stende Bujumbura fino al lago Tanganika. Il Tanganika, lago impressionante, largo 50 km nei punti più stretti e 200 in quelli più larghi, 600 km di lunghezza. Arrivando dalle colline si vedono centinaia di tetti in lamiera scintillanti. Chiedo ingenuamente ad un passeggero se quella che si stende davanti a noi è Buja. Mi accorgo che il bambino seduto alla mia destra si è svegliato e sgrana gli occhi in un misto di curiosità e contemplazione.
Porta solo una camicia a quadri azzurrina, un paio di jeans e le classiche camambili (infradito). Gli chiedo nel mio stentato kinyarwanda come si chiama e cosa andasse a fare a Buja.. Sorpreso dal mio kinyarwanda mi risponde che si chiama Kundo, non si è mai mosso dalla sua collina, non aveva mai visto Kigali e andava a visitare un amico.
Aveva trovato quel passaggio offerto dall’autista, non aveva più di qualche spicciolo in tasca. Non era mai stato in città e la città si preparava a mangiarlo, a farlo soffrire, a insegnarli la vita nella sua forma peggiore fino a trasformarlo in un bambino di strada, a trasformarlo in un uomo prima del tempo, cambiando per sempre lo sguardo dell’innocenza.