Bosnia-Erzegovina: prova ad immaginare

di Deganello Sara

Diario da Sarajevo – I

Un viaggio attraverso le persone

Dal 4 al 17 settembre 2003 sono stata in Bosnia-Erzegovina. Sono andata a trovare due mie amiche, Ljubica ed Edina, che erano con me in Germania, a Konstanz, l’anno scorso. La prima è bosniaca-croata, nata a Zenica, una città a un’ora di macchina da Sarajevo in direzione nord-ovest (zona a maggioranza musulmana), ora vive a Mostar. L’altra è bosniaca musulmana di Teâçáanj, due ore a nord di Sarajevo. Sono andata in Bosnia e vi ho scoperto tutto un mondo. L’esigenza primaria, istintiva, da cui questo diario scombinato è nato, era di raccogliere e immagazzinare tutto. Assorbire a più non posso. È stato un viaggio soprattutto attraverso le persone: loro due, le loro famiglie e i loro amici. Ciò che scrivo è quello che mi hanno mostrato e raccontato. La storia del loro paese, sulla strada per Medjugorie, il loro album di famiglia, la tomba dei loro nonni, le telenovele italiane con i sottotitoli in serbo-croato, la loro casa di campagna (che tutti avevano retaggio dell’antico regime comunista), il caffè bosniaco, le moschee, la casa del derviscio mi sono lasciata guidare da loro per le loro strade. Spero quindi di non aver travisato la loro verità. Cioè la Verità.

La guerra

Il 5 aprile 1992 in Bosnia-Erzegovina solo alcuni potevano credere che sarebbe successo quello che poi un attimo dopo, l’indomani, realmente è successo. La guerra. Cioè l’aggressione da parte della Serbia e l’assedio di Sarajevo. È finita alla fine del 1995, quando si dice che la Nato, sbeffeggiata dai serbi per impotenza (in realtà era semplice inazione), ha rischiato di perdere la faccia e si è quindi impegnata a far finire un conflitto in cui non aveva, alla fin fine, nessun interesse. O almeno queste cose le racconta Danis Tanovic, regista di No Man’s Land. Durante la guerra ha passato a Sarajevo due anni, due anni di troppo, dice lui, dove con telecamera e fucile (l’unico mezzo per aver sempre ragione) ha filmato e filtrato quello che vedeva nella città. All’ombra di questa premessa si è snodato il mio viaggio. Ma il sole e le belle giornate non sono mancate. Soprattutto nella mediterranea Erzegovina.
Il racconto è naturalmente sparso, è un flusso di ciò di cui ho preso coscienza. Comincia da un punto casuale tra i tanti che hanno intaccato la mia ingenuità

Un paese che non fa rima
con nessuna moda

I serbi hanno cambiato i nomi delle città che hanno conquistato, senza dirlo agli altri naturalmente. Un amico di Ljubica doveva andare in una città che però era sparita dalla carta geografica. Non so quanti giorni ci ha messo, aiutato dagli amici, a trovare il nome nuovo e di conseguenza localizzarla. Una città fantasma è difficile da immaginare.
I serbi si aggiunge il cirillico a rendere questo popolo a prima vista ancora più incomprensibile. Riesco a capirlo solo negli occhi della mia amica Veca di Belgrado. Lavoravamo insieme a chiudere la gelateria Arlecchino a Konstanz. E mi diceva che la politica ha combinato un vero schifo e ha rovinato le persone, le piccole persone di ogni giorno che, come lei, Ljubica ed Edina, si incontrano, si conoscono, si stimano e se dico che si vogliono bene non è sentimentalismo.
Nella realtà geopolitica lembi di Repubblica Serba (srbska la parola con meno vocali nella storia della fonetica) sono compresi nei confini dello stato bosniaco. Non c’è nessuna frontiera, se non quella alfabetica, che demoralizza il turista e inacidisce musulmani e croati. Loro lo leggono il cirillico, certo. A scuola scrivevano una settimana con l’alfabeto latino, una con quello cirillico. C’è un punto di contatto tra i due: le targhe delle automobili. Le targhe sono formate, come da noi, da cifre e lettere ma le lettere sono solo quelle comuni ai due alfabeti. È stato fatto in modo da non creare discriminazioni (o riconoscimenti discriminatori). Prima della guerra, però, in Bosnia, quello cirillico era solo l’alfabeto dei colti e della tradizione. Non compariva sui cartelli stradali e sulle insegne dei negozi. Ora invece sì, assolutamente e bene in vista. Non riuscivo ad immaginarmi che prima non fosse così.
Quando racconto queste cose c’è chi mi chiede ancora cosa ci sia andata a fare in Bosnia. Un paese che non fa rima con nessuna moda, con nessuna attrazione, con nessuna fama. Se non della più infamante. Anche un altro sentimento evoca forse la Bosnia: quello del conato umanitario. In realtà loro non hanno bisogno della pietà di nessuno. Alla svendita dei buoni sentimenti dell’occidente partecipano le coscienze semplici o forse solo confuse. Ora c’è il bisogno puntuale di dare dignità, ora come sempre. Saperla dare è una virtù politica che hanno tutti, anzi che devono perseguire tutti.

Sarajevo, quando la storia uccide

La condivisione emotiva, invece, è un evento raro. Forse mi è capitato di viverlo e quando leggo sul libro di Demetrio Volcic, Sarajevo, quando la storia uccide, che i nomi delle ragazze musulmane stuprate a Srebrenica sono Selma ed Edina, rabbrividisco. Perché posso associare due nomi presi a caso dal patrimonio tradizionale musulmano a due persone precise. Due volti. E allora sì che prendo tutta la storiaccia sul serio. È conseguente. È agghiacciante. E quando mi commuovo davanti al Diario di Zlata di Zlata Filipovic, una bambina che ha vissuto l’assedio di Sarajevo in prima persona e ora ha un anno più di me e chissà dove sarà e cosa starà facendo beh, è per lo stesso motivo.

Edina

Quando ho conosciuto Edina a Konstanz, eravamo in autobus e mi aveva appena detto di essere bosniaca. Allora io, volendo parlare un po’, le ho chiesto candidamente quale fosse la capitale della Bosnia, borbottando che con tutti quegli stati nuovi facevo un po’ di confusione. Sarajevo, mi ha risposto. E io lì ho iniziato a scusarmi.
Dopo quell’iniziale imbarazzo mi ha molto parlato del suo Paese. Io ho imparato che i croati sono cattolici, i serbi ortodossi e i bosniaci (che non siano serbo-bosniaci o croato-bosniaci) musulmani. Lei quando comincia a parlare di politica con Ljubica su alcuni punti non riesce proprio a trovare un terreno comune (la cosa è reciproca). Come titolare di un passaporto che le permette di andare senza visto solo a Cuba, in Turchia e negli stati islamici, non riesce a capire come bosniaci come lei, nati e cresciuti nel suo stesso Stato, magari addirittura nella stessa città, possano accedere al passaporto croato, cioè alla porta che si apre sul mondo. Tale passaporto permette infatti di entrare in molti Paesi senza visto, primi fra tutti quelli dell’Unione Europea. La Croazia pensa già di giungere a farvi parte nel futuro prossimo, la Bosnia non ci pensa neppure, tanto è lontana dagli standards richiesti. Edina non riesce ad accettare il fatto di questi due passaporti. La nazionalità è una sola. Invece Ljubica addosso se la sente doppia.

Ljubica

Ljubica Il nonno materno è stato ustascia, il padre è fuggito a piedi attraverso i monti intorno a Zenica per non dover combattere con l’esercito bosniaco e ha disertato il matrimonio della cugina che ha sposato un serbo. È tornato dalla guerra che era un vecchio, lei lo ricordava moro e forte. La madre vi ha perso un occhio. Lei, la figlia maggiore, ha passato tre anni e mezzo di guerra al sicuro in Germania, su a nord. Era partita credendo di doverci stare due settimane, gita premio ai più meritevoli della prima media. Tutto questo lo racconta senza l’enfasi che forse è il pegno di quelli che sono messi di fronte a situazioni di dolore inimmaginabili per la famiglia media italiana del nord est. I suoi fratelli più piccoli passavano le estati di guerra ospitati da famiglie italiane. Le scuole non hanno chiuso, durante la guerra. Solo era tutto più complicato e difficile. O più facile, per qualche furbo. Ora si comincia a dubitare che qualche diploma rilasciato in quel periodo non sia stato conseguito regolarmente.
Ora nell’ebbrezza magari a Ljubica viene anche da cantare l’antico (e attuale? Non so) inno croato tra lo sdegno di Edina. Poi mi confessa che è stato difficile, il ritorno. Che ha fatto fatica ad accettare quello che la sua gente aveva fatto durante la guerra. Hanno abbattuto lo Stari Most, il ponte vecchio a Mostar. Sono proprio stati loro, i croati. Ma ora vuole andare avanti. È convinta che per i musulmani sia ancora più difficile. Loro le hanno prese, come si dice, da tutte le parti. E non avevano uno stato esterno su cui contare e in cui rifugiarsi come i croato-bosniaci o i serbo-bosniaci. Forse è anche da questo che nasce il dolore profondo di Edina. Lo vedo anche in Nermina, sua madre, che mi dice: mi hanno portato via la mia patria. Quella era la mia patria. Era la Jugoslavia. E loro erano tutti gli slavi del sud.

La patria

Non è come da noi che questa parola ti fa risuonare dentro subito il freddo bianco lineare del Vittoriale. In inglese come in tedesco è un suono profondo ma accogliente, rotondo: home, Heimat. E queste lingue hanno pure, a differenza nostra, un termine che indica la nostalgia di casa. La malattia della patria. Homesick, Heimweh. Di sicuro anche gli slavi ne avranno uno corrispondente. La loro è una terra povera, sfortunata sembra. Quindi una terra di partenze. La casa (home) è dove ti amano, dove ti conoscono e dove tu conosci e ami loro.
C’è molta gente che lavora in Germania e poi manda i soldi a casa e vi torna il prima possibile. Sono quelli che stavano con me sul pullman Konstanz-Teâçáanj. Sono quelli che viaggiano lungo la notte attraverso tre frontiere e tre controlli dei passaporti in silenzio, birra economica e rughe profonde. Sono quelli che sono percepibilmente felici quando entrano in territorio bosniaco, anche perché la notte oscura e insonne è ormai alle spalle. Mi offrono cioccolata perché lavorano alla Milka e ne portano a casa a scatole o mi offrono gomme e acqua perché sono semplicemente gentili. O forse non riescono a capacitarsi di cosa ci faccia un’italiana lì con loro. Loro che mi mostrano lo sminamento di un campo come se fosse un famoso monumento bosniaco.
Quando è scoppiata la guerra Edina con la madre e il fratello, come pure la zia e i cugini e molti altri come loro, sono scappati in Germania come rifugiati. Il 6 aprile 1992 è cominciato l’attacco e con l’esercito serbo che avanzava mi sa che il 12, se non ricordo male dal suo racconto, erano già partiti. Gli uomini della famiglia erano però rimasti in Bosnia e li hanno raggiunti solamente in seguito. Lo zio con un passaporto falso addirittura. Cerco di immaginare la dinamica di quegli avvenimenti e quel che mi viene in mente subito è cosa si sarà messa nella valigia. Che domanda stupida. Ma cosa avrà pensato una ragazzina di 12 anni di fronte a quella fuga?
Quando è scoppiata la guerra in Iraq l’abbiamo guardata insieme in televisione. Ma lei, dopo un po’, aveva già deciso che non voleva saperne più di tanto, anzi che non ne voleva proprio sapere. E io a dirle: ma come, Edina, al giorno d’oggi bisogna tenersi informati, non si può permettersi di rifiutare la vista dei fatti globali. Una guerra mi ha già rovinato l’infanzia, mi ha risposto E tutte le guerre sono uguali. Come puoi immaginare di stare settimane, mesi senza sapere se tuo padre e i tuoi nonni che sono rimasti a casa sono vivi e stanno bene?