Totò cerca casa
Le immobiliari hanno i prezzi alti
Mediazione senza filtro
L’appuntamento è tardi, sabato mattina. La città ha ormai smaltito il traffico scolastico, il quartiere di Santa Croce è animato da fattorini di fiorerie e operai lenti. Il nostro uomo arriva con lo scooter grigio, come preannunciato. È il suo segno distintivo, ogni agente ha il suo: particolari della fenomenologia immobiliare necessari a che avvenga il contatto con il cliente. È un uomo alto, ingombrante sulle due ruote e soffocato da un casco nero.
Parcheggia e ci tende la mano, un po’ stordito. Si dev’essere svegliato da poco: l’ho immaginato la notte prima a bere la staffa in uno di quei baracchini che si trovano lungo le arterie cittadine. Giusto un saluto e ci fa strada: l’appartamento che abbiamo chiesto di vedere è pochi numeri civici più in là, al terzo piano di un casermone che non dà sulla strada principale.
Ci avviamo, silenziosi. Varcata la porta del condominio, l’agente inizia la descrizione dello stabile: ci precede e parla alle scale di fronte a lui o alla porta dell’ascensore che abbiamo preso. Solamente varcata la soglia possiamo guardarci in faccia: l’omone ha occhi piccoli e chiari e guance rotonde, le occhiaie e una chioma bionda chiaramente ossigenata. Ingresso, soggiorno è molto luminoso, dice tirando su la tapparella cucina abitabile (da una famiglia di gnomi, penso io), bagno primo cieco con vasca, bagno secondo finestrato con doccia: è la frase che gli riesce meglio, finestratocondoccia, e la ripete più d’una volta, la lingua impastata dalle MS della sera prima che lentamente torna alle sue funzioni fisiologiche. Camera padronale, cameretta e terza camera, poggiolo-lavanderia e ripostiglio. Sui muri i fantasmi dei quadri e dei mobili ricordano la vita che abitava quella casa, ora ventre vuoto.
Al nostro timido cenno, dopo averci permesso qualche commento privato, ribadisce il prezzo, trattabile, con il tono di chi sa di avere la chiave dalla parte del manico: è basso per una casa da restaurare quasi completamente – si concede qualche nota sociologica – i prezzi a Padova sono gonfiati, i più alti degli ultimi vent’anni, ma non diminuiranno più, ormai è questo l’investimento più sicuro. E rimaniamo a guardare.
Comunque a casa d’altri
Daniela alza gli occhi azzurroverde. Mi guarda. Sono due palle tonde, in bilico sugli zigomi appuntiti. Ha poco più di ventidue anni: le sue coetanee italiane saranno alle prese con l’appello accademico di giugno o con il loro lavoro di segretaria nella ditta dello zio. Daniela no: prende ogni mattino il primo autobus della giornata, poi un treno. La mancata sincronia la costringe ad una mezzora di stazione, nelle ore in cui d’inverno non sembra ancora giorno: a casa spesso raccoglie nei posacenere e nelle tasche qualche spicciolo, per un caffè mattutino. Va a Mestre per fare le pulizie in una cooperativa. Tiene questo lavoro da tre anni, nonostante i colleghi acidi e lo strano contratto che le han fatto firmare.
E chi me lo dà un mutuo? Mi chiede, ma non vuole la risposta. Non saprei dargliela: anche nella città dove una banca si chiama etica è impossibile per una cittadina rumena accedere ad un investimento per metter su casa. Metter su casa… Ma io mi fermo alla tua età a che cosa pensavo? Dov’ero? Ero in vita?
Madre di chi, terra non ha
Saintes Maries de la mer è una cittadina srotolata lungo la foce del Rodano. Un cumulo di case bianche e basse, ordinate in viuzze strette e colme di rumore turistico, che partono a raggiera dalla promenade che separa la terra dall’acqua verde del Mediterraneo. Da lontano ha la forma di “t” adagiata sulla schiena: una linea continua interrotta da una costruzione molto più alta, che svetta color mattone. È la chiesa delle Sante Marie.
Il plurale non è un riassunto dei vari titoli con cui in Italia siamo abbondantemente abituati a coronare la madre di Cristo. Le Marie in questione sono altre, personaggi in apparenza secondari: la leggenda racconta che Maria di Salòme e Maria di Giacomo, dopo l’opera pietosa di addolcimento del corpo di Gesù crocifisso con unguenti profumati e dopo aver incontrato il Risorto, furono perseguitate e costrette alla fuga. L’esilio prende la forma di un viaggio su di una barca senza remi né vele, un abbandonarsi incognito al mare che le conduce sulle rive della Camargue, nel luogo che da loro prenderà nome. Vengono accompagnate, o forse accolte (qui il racconto si fa confuso, come ogni sana leggenda orale) da una ragazza gitana, Sara. Qui il viaggio ha termine, trova un approdo.
È una viaggio di donne sole e senza casa: incrociano un’altra donna che porta nel sangue della propria gente la scelta di non avere mai una dimora stabile. L’incontro si fa accoglienza: il movimento in avanti dell’ “essere con l’altro” non ha bisogno di un’abitazione in cui far accomodare, ma è un farsi comodi con chi ci è vicinissimo, un accomodare le cose da parte di chi è abituato ogni giorno a smussare gli angoli, ad ammorbidire la terra sulla quale si ferma, a cogliere sfumature dove altri vogliono vedere solo bianco separato da nero.
L’avvicinarsi di due bisogni, di due mancanze, non diventa peso doppio, consolatorio forse, ma sempre soffocante. Diversamente, è occasione di creatività: è dall’incontro che nasce un luogo e non viceversa. Saintes Maries de la mer è ancora oggi, una volta l’anno, punto di convergenza di centinaia di nomadi, zingari, rom, sinti che scarrettano i propri bagagli colorati per salutarsi e raccontare, per mostrare i nuovi nati e ricordare i vecchi andati, per sostare nella cripta piccola ma capace di contenere un mondo e accendere un lume alla statua di Sara, Santa nera, madre di chi casa non ha.