Se il futuro è già calcolato la nostra anima è vuota

di Stoppiglia Giuseppe

L’agire si riduce a fare e non rimane più spazio per l’etica

«Sappiatelo, sovrani e vassalli,
eminenze e mendicanti,
nessuno avrà il diritto al superfluo,
finché uno solo mancherà del necessario».
[Salvador Diaz Miròn, poeta messicano]

«L’uomo d’oggi guarda,
ma non contempla,
vede ma non pensa».
[Eugenio Montale]

Nella Pasqua ebraica i cibi serviti erano accompagnati da erbe amare. Assenzio, lattuga e altro…à Penso che dovremmo mescolare assenzio nei nostri cibi e nelle nostre bevande. Bisogna bere l’amaro della vita per avere una chiara percezione della dolcezza assente, distante.
Paul Tillich, durante un’omelia, raccontò un giorno questa storia. In uno dei giudizi per crimini di guerra al tribunale di Norimberga, testimoniava un ebreo che per qualche tempo era vissuto in una tomba del cimitero. Era quello l’unico luogo dove lui e tanti altri ebrei potevano vivere, nascosti, dopo essere scappati dalle camere a gas e dai forni crematori. Durante quel periodo egli aveva scritto delle poesie, una delle quali descriveva una nascita là avvenuta. In una sepoltura vicino alla sua, una giovane donna aveva dato alla luce un bambino. Il becchino, di ottant’anni, aveva fatto da ostetrico, avvolto in un lenzuolo di lino. Quando il bambino, al nascere, era scoppiato in un grido di pianto, il vecchio aveva così pregato: «Grande Dio, chissà se finalmente Tu non ci abbia inviato il Messia!? Perché chi, all’infuori del Messia, potrebbe nascere in una sepoltura?».

Spreco e indifferenza

Dal primo viaggio in Africa o in America Latina torni che gridi, al secondo parli, dopo il terzo taci. Quando si torna tacendo, dopo la retorica dello sdegno (gridare) e la banalità del turista (parlare), significa che forse si è divenuti consapevoli del fatto che occorre anzitutto cambiare mentalità e stile di vita.
Su una pista di terra rossa nel sertao della Bahia, a Jgaporà, ho sperimentato che ci si può vergognare a mangiare il pane da soli. Ero con una suora e un operatore della Commissione pastorale della terra, il quale ci faceva anche da autista.
Non avevamo ancora finito di scartocciare le provviste che vedemmo appoggiarsi sui finestrini abbassati del fuoristrada, una vecchia Toyota, inequivocabili, nere falangi. Decine di ragazzi nudi. Formiche richiamate dal segnale delle briciole di pane. Non dicevano niente. Non chiedevano nulla. Semplicemente ci guardavano, con rispetto e stupore, addentare il pane.
Una scena impressionante. Il ritratto di una vergogna che ormai non conosciamo più, anche perché cerchiamo di guardare dall’altra parte quando ci imbattiamo con gente affamata. Forse, in Africa o in America Latina, di fronte a quei volti smunti e silenziosi, a quegli occhi protesi verso il miraggio del pane, potremmo provare qualche fastidio o rimorso. Può capitare anche che il telegiornale faccia balenare per pochi minuti il dramma della fame nel mondo, con mani scheletriche, occhi lucidi, corpi rinsecchiti. Subito dopo, ecco il servizio sulla moda, con bellezze statuarie, scenari superbi, cene sontuose, mondanità eccitanti.
Ciò che è terribile, appunto, è la nostra capacità di rimuovere ogni elemento di inquietudine per immergerci nella festa, nel consumo, nello spreco, con allegra indifferenza. Anzi, chi ci ricorda quelle “falangi nere” e scarne che si aggrappano al nostro benessere, sembra che voglia solo rovinarci la festa…

Quale etica nel mercato globale

Dov’è finita l’etica nel mondo del dio mercato? C’è qualcuno che ritiene che l’economia sia ancora e debba essere compatibile con l’etica. Da parte mia non vedo quale etica possa raggiungere l’altezza dell’economia divenuta “globale”.
La globalizzazione rende impraticabili le etiche che, sia sul versante cristiano, sia sul versante laico, sono state finora formulate.
Il “mezzo” che l’economia assume come suo unico indicatore oggi è il denaro. Non è sempre stato così, lo è solo da quando l’economia è divenuta, nella seconda metà del settecento, un sistema scientifico. Quando il denaro diventa la forma unica dell’economico, e l’economico diventa la forma del mondo, si sviluppa una qualità di pensiero, un tipo di razionalità che si limita a fare solo operazioni con numeri, guarda vantaggi e svantaggi, profitti e perdite, e si configura esclusivamente nell’utile.
Qui è l’essenza del “pensiero unico”, dove i criteri di valutazione sono la produttività, l’efficienza, il calcolo, accanto ai quali non ci sono pensieri alternativi o, se ci sono, sono pensieri marginali. Penso ai pensieri filosofici, teologici, poetici. Sono pensieri possibili, gratificanti, ma il mondo non si organizza a partire da questi pensieri.
Siamo consapevoli che la diffusione, anzi l’egemonia dell’economico, indicato esclusivamente dal denaro, possa costituire l’unica forma di pensiero a cui educare l’umanità? Se è così, come pare, non è il luogo decisivo del fallimento etico?
In un mercato tecnicizzato è ancora consentito agire o non resta altro che fare? Colui che opera in un apparato agisce o esegue? E qui non penso solo all’impiegato, ma anche all’imprenditore, che è, a sua volta, privato della possibilità di agire perché deve eseguire, cioè seguire azioni descritte e prescritte dal mercato.
A questo punto, se agire significa compiere delle azioni in vista di uno scopo, e fare vuol dire invece eseguire azioni già prescritte dall’apparato, che nella fattispecie è il mercato, come possiamo introdurre un’etica, là dove nessuno più agisce, perché tutti si limitano a fare e a eseguire?
Mi vengono in mente quelle risposte che i generali nazisti davano quando venivano catturati e processati. Si chiedeva conto della loro condotta ed essi rispondevano: «Ho eseguito ordini». Qui abbiamo un esempio di cosa significa passare dall’agire al fare. Perché colui che fa, non è responsabile dei fini ultimi. Se io lavoro in una banca e questa banca, per ipotesi, sovvenziona la produzione delle armi, io impiegato non sono responsabile. Primo perché non sono tenuto a conoscere i fini ultimi, secondo perché, se anche li conoscessi, non sono autorizzato a prendere posizione. Quindi io faccio, ma non agisco più, perché i fini mi sono stati sottratti.
Ormai l’agire si riduce a lavorare, dove lavorare consiste nella pura esecuzione di azioni già prescritte. Sinceramente è difficile trovare spazio per l’etica. Non disponiamo di un’etica all’altezza della tecnica e dell’economia globale; per questo bisogna cominciare a pensare.

Quale proposta, per quale futuro

Ora qualcuno dei miei venticinque fedeli lettori potrebbe chiedermi: «Tu, allora, quale soluzione proponi?».
Per scelta io propongo dei valori per poter affrontare meglio la complessità del reale, mai delle soluzioni. Sta a ciascuno di noi elaborare le strategie appropriate. Se ci si muove concretamente, il pensiero ci seguirà. Combatto con accanimento questa idea che si possano vendere delle soluzioni. Anche in politica l’idea di programma la ritengo molto secondaria, rispetto all’idea di “via”, che preferisco.
Ci devono essere sempre degli obiettivi da individuare e da fissare, occorre il massimo sforzo per poter raggiungere quegli obiettivi, ma la via del futuro non è mai tracciata in anticipo. È per questo che amo citare il poema di Machado che dice Tu che cammini non hai un cammino, il cammino si realizza camminando.
Credo fermamente che il cammino si realizzi camminando. Benintesi, ci si orienta con una stella, come la stella polare. La stella, è la nostra aspirazione ad un mondo migliore, è la nostra fede nella fraternità. Ma sta a noi realizzare il cammino.
Abbiamo vissuto fino agli anni Settanta con l’idea che il futuro fosse tracciato. Sia nel mondo comunista che era tracciato verso la società senza classi, sia nel mondo della democrazia liberale che era in questo caso tracciato verso un mondo che fosse il meno peggio possibile. Ma l’idea era che la via del progresso fosse, in tutti i modi, ineluttabile. Oggi, quando penso che il progresso è possibile, sento pure che non è predeterminato.
Credo che questo sentire sia una delle grandi acquisizioni della nostra epoca, a condizione che non sia abbandonato. Perché non è sufficiente acquisire una verità, bisogna conservarla.
Se abbiamo perso le chiavi del futuro come possiamo capire il futuro? Nessuno lo sa. Liquidare e liberarsi degli sfruttatori non è sufficiente perché emergono dei nuovi sfruttatori. Basta guardare nell’ex Unione Sovietica.
Il progresso si deve costruire attraverso l’educazione? Sì, ma chi va ad educare gli educatori? Tutto è problematico e non abbiamo le chiavi del futuro.
Ogni volta che si è realizzata una grande trasformazione storica, non è che qualcuno possedesse in anticipo le chiavi di accesso. Questa che viviamo è un’epoca di grandi cambiamenti, incontestabilmente. Assistiamo alla distruzione di un mondo, senza che si possa anticipare la figura di quello che emergerà. La nostra scommessa, a questo punto è quella di attrezzarci di un acuto senso di vigilanza.

Una nuova barbarie

Oggi il lavoro di ricerca e di elaborazione degli intellettuali è minacciato in modo particolare dal totalitarismo tecnoscientifico, per il quale conta solo la quantità e non la qualità, la rapidità e non la durata, un’incontestabile egemonia di un modo di pensare che riconduce tutto al calcolo. Questo modo di pensare che regna nell’economia e nella tecnica, lo considero una nuova forma di barbarie. Il lavoro di riflessione, il lavoro del pensiero è minacciato. Ed è minacciato sia dall’interno che dall’esterno.
Dall’interno perché si vive in un mondo cronometrato, affrettato, in cui i tempi della riflessione mancano, non c’è investimento riflessivo in politica, nella scuola, né altrove; si vive giorno per giorno e si è presi dalle pianificazioni e dalle programmazioni.
Dall’esterno: in televisione tutte le forme di dibattito sono diventate impossibili. C’è stato un tempo in cui si poteva discutere per un’ora con un interlocutore, oggi si vede solo spettacolo. Quanto al libro, esso diventa una merce, ed il suo circuito si fa di giorno in giorno più rapido e più breve.
Lo si invia nelle librerie, che non lo vogliono, lo rendono; molti libri muoiono prima ancora di essere nati. I servizi stampa orientano le critiche verso libri che si suppone possano diventare i futuri best seller. In breve il libro è sempre più integrato nei circuiti di un’enorme macchina anonima e mercantile, e la critica è dominata sempre più dai clan, che possono salutare delle “pizze” come dei capolavori.
Certo, ed è incoraggiante, ancora oggi si pubblica qualche libro interessante, che abbraccia tutti i campi del sapere, soprattutto nelle piccole case editrici, quindi non tutto è perduto, ma tutto è sempre più marginalizzato.

In cammino verso il non luogo

È evidente che in una condizione del genere la democrazia non può andare oltre le scelte degli esecutori tecnicamente più capaci di applicare i comandi del capitale finanziario che si muove a livello transnazionale, per cui quando Marx diceva che i governi erano comitati d’affari della grande borghesia, aveva torto, ma solo per difetto. Quello che allora era un cattivo costume, oggi è un sistema, anzi, è il sistema. Per cui, se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale, interi Stati vengono costretti a lavorare per conto delle grandi finanziarie e delle grandi imprese.
Vivere insieme agli altri senza essere riconosciuti è insopportabile nella quotidianità dell’esistenza. Sperimentare nella condizione di vittima della violenza o di sopravissuto l’abbandono dell’altro, il tradimento o il disprezzo è qualcosa che può intaccare in maniera irreparabile il patrimonio comune dell’umanità e provocare quello che Alain Brossat definisce «lo sradicamento da tutta la comunità umana, la disunione con tutto l’avvenire».
Adattarsi per sopravvivere svuota l’anima. C’è chi non si è adattato, conservando intatta la capacità di comprensione e moltiplicando gli sforzi per combattere la menzogna.
Essendo il capitalismo diventato globale, e avendo occupato tutti i luoghi della Terra, a contrastarlo, non resta che l”utopia”, ossia quel “non-luogo” dove si sono rifugiati, spinti sia da destra, sia da sinistra, personaggi, progetti, idee, proposte, finite nell’unico posto al mondo che accetta tutti i detriti della storia.
Da questo non-luogo non possono nascere rivoluzioni liberatorie, ma solo una chiamata che viene dal futuro, dalle sorti future della terra e dell’uomo, simile alla chiamata di Abramo a lasciare la sua casa, la sua terra, il suo popolo, per diventare il padre di una popolazione utopica, all’epoca senza luogo, come senza luogo è già il nostro abitare sulla Terra.

Pove del Grappa, agosto 2004