La felicità oggi, tra guerre e capitalismi

di Alessandro Bruni

Il tema della felicità è già stato affrontato da madrugada nel n. 60 di dicembre 2005 con articoli dalle ampie sfaccettature individuali, sociali e religiose. Ancora oggi, questi articoli forniscono approfondite considerazioni di come la felicità non consista nella rassegnazione gioiosa a ciò che accade nella vita, ma nel fatto di viverla attivamente coinvolti in uno stato esperienziale che spesso precede e non segue l’agito costruttivo.
Rispetto al passato la felicità è divenuta oggi più sentimento individuale che associativo, più condizionato dal contesto sociale con un maggiore tasso medio di violenza fisica generalizzata. L’espandersi di una società sempre meno legata alla vita pubblica e con un alto tasso di insofferenza personale, che genera un odio strisciante verso il diverso radicato in stereotipi di difesa nazionalistica, fa sì che oggi si vive una tipologia di felicità individuale condizionata dalle guerre e dal capitalismo dei consumi.
Dopo quasi vent’anni, il progresso tecnologico è divenuto dilagante, con vette di efficienza funzionale basato sull’uso di devices informatici spersonalizzanti (l’abbandono del contante, il controllo da remoto, l’home banking, la prenotazione via informatica, ecc.) che hanno aumentato la distanza tra cittadino e sistema sociale, prima basato sul rapporto personale (si andava allo sportello) e oggi basato su un rapporto con una macchina, ha lasciato un largo numero di persone escluse per età e incapacità. Il tempo del progresso è stato molto più veloce della capacità adattativa del singolo cittadino, ponendolo in una condizione di consapevole inutilità e infelicità che sono gli elementi di base dell’indifferenza abulica e del desiderio di sicurezza. Fattori che determinano una rabbia nascosta, che sfocia in episodi a forte impronta anonima di rivolta istituzionale, primo fra tutti quello contro il sistema sanitario nei pronto soccorso.
Viviamo contemporaneamente due scenari di guerra quasi totali, l’uno in Ucraina e l’altro in Palestina. Gli stati democratici stanno aumentando le spese per gli armamenti, ritenendo con questo di garantire la pace.
Contemporaneamente viviamo una contesa per la conquista del potere economico a livello mondiale di grandi gruppi di privati, con la lusinga della conquista della felicità personale artificiale. Veniamo esaltati dalla possibilità di viaggi spaziali (costosissimi) e rimaniamo inefficaci sulla povertà e sostenibilità: così si allarga la forbice tra ricchi e poveri nel mondo; così la personale ricerca di felicità è, oggi più che in passato, anestetizzata dal garantismo nazionalista e dalla promessa di maggiori beni di consumo.
Si sta dimenticando che la felicità scaturisce dalla possibilità di scelta di ogni uomo, senza questa non c’è libertà e l’uomo cadrà nell’indifferenza di chi si sente privato della possibilità di essere felice. Senza scelta non c’è libertà, senza libertà non c’è felicità. La non scelta, prospettata da alcuni filosofi moderni (Sartre e contemporanei), fa precipitare le persone in un limbo emotivo che chiude piuttosto che aprire all’autodeterminazione. Ci si dimentica che ogni disegno socio-politico o esistenziale deve essere preceduto da una visione individuale di speranza e felicità su cui costruire l’agito privato e pubblico.
Certamente il grado di libertà e di benessere oggi appaiono assolutamente irrinunciabili, ma di fatto personalmente ne dobbiamo pagare il prezzo e collettivamente siamo incapaci a dare risposta a situazioni globali quali quelle della pace, del clima, della sostenibilità (tutti argomenti molto discussi e poco praticati) poiché questi sono decisi da gruppi mondiali di potere e di mercato planetario. Forse è per questo che molti nel mondo non vanno più nemmeno a votare: una non scelta per rifiuto a partecipare a un mondo sempre più innaturalmente alieno e sempre meno umano, una scelta che oggi accomuna ogni abitante della Terra: non si sogna più, ci si adegua all’indifferenza, ci si adegua all’infelicità.
Prendiamo un elemento emblematico a tutti caro: la cultura della pace. La capacità di negoziare per la pace si basa sul credere nella felicità propria e altrui ed è strettamente legata alla cultura della diversità, o pluralismo, perché da essa non può prescindere e da essa trae il principio ispiratore, filosoficamente definito come autorità morale. E l’autorità morale per sua natura non è imposta, ma liberamente e spontaneamente riconosciuta. Non la si può esercitare nella dittatura, né nella teocrazia, né nell’oligarchia militare, né in una democrazia basata sul Pil. Le proposte di pace e di lotta contro la povertà per essere credibili devono essere portate avanti da uomini che credono nella felicità come passaporto indispensabile per ogni azione sociale.
La chiave di lettura forse utopica e banale, ma necessaria, è quella della ricerca del bene dei popoli nella prosperità e nella felicità. Lo scopo dell’esistenza è provare la pienezza dell’essere, accompagnata dall’amore per ogni altra creatura vivente. La vera felicità è ciò che si determina se ognuno può dare un senso compiuto alla propria esistenza. Come scrive Isabella Guanzini (Filosofia della gioia. Ponte alle Grazie, 2021): «In tempi di crisi, dove tutto sembra farsi di pietra, perseguire la felicità non è affatto un’impresa velleitaria: ci vuole coraggio per rinunciare a far tornare i conti e accogliere invece l’enigma che ci oltrepassa. Nulla è in nostro potere, se non l’ascolto del desiderio che sgorga dal profondo, la vocazione che ci chiama a essere noi stessi germinando e dialogando con l’Altro, educando i nostri figli al dono, scommettendo sul bene comune, di cui è fatto il futuro».

Alessandro Bruni

Alessandro Bruni

componente della redazione di madrugada
e blogger di madrugada blog.