La felicità nell’esperienza monastica universale e la specificità cristiana
Cosa può dire un (ex) monaco (che pur avendo lasciato il monastero non ne ha mai abbandonato i valori di fondo) riguardo al tema della felicità? Partiamo da un chiarimento importante riguardo a ciò che intendiamo per felicità: se la inquadriamo nella psicologia delle emozioni, la felicità è un’emozione di base, un’esperienza momentanea e immediata, legata a situazioni specifiche che attivano risposte neurali. Se invece la consideriamo in termini più duraturi e complessi, la felicità può essere vista come un sentimento, ovverosia una combinazione di emozioni, pensieri e considerazioni soggettive che coinvolgono valutazioni cognitive e un contesto personale e culturale.
Il monachesimo ha un’angolatura molto specifica da cui tratta la questione della felicità, una prospettiva che affonda le proprie radici in un concetto che, nella sapienza della Grecia classica, è stato definito eudaimonía. La forza di attrazione dell’esperienza monastica, che attraversa ogni cultura e religione (e raggiunge anche chi è ateo), è la sua capacità di plasmare delle vite umane a partire dalla ricerca di un eû daímōn, uno “spirito buono”, un itinerario di senso appagante, che ci realizzi come singoli e come appartenenti a comunità, società e culture più ampie della nostra piccola (ma significativa) individualità.
Proprio per questo, la traduzione di eudaimonia con felicità, pur cogliendo alcuni aspetti del termine ne rappresenta in realtà una forte limitazione, se non un tradimento. Il monaco è il prototipo dell’umano che realizza sé stesso trovando una fonte di senso, aderendovi nel tempo e cambiando la propria vita a partire dalla ricerca e dalla pratica di conoscenze e attività che trasformano intuizioni, cognizioni ed esperienze anche collettive nell’incarnazione di vissuti specifici e diversi per ciascuno.
In altre parole, sebbene la felicità come sentimento (e, a tratti, come emozione) possa essere parte dell’esperienza eudaimonica, la componente creativa più vera (o autentica, o “sensata”) dell’esperienza umana non è la ricerca della felicità ma l’adesione personalissima e trasformante a principi che danno senso e forma alla nostra identità e al nostro agire. Anche laddove l’esito di tale adesione dovesse rivelarsi decisamente poco foriero di emozioni collegabili alla nozione di felicità.
L’eudaimonia appartiene alla sfera creativa in quanto la sua ricerca consente la trasformazione di noi stessi e della realtà che ci circonda, dando vita a qualcosa di originale, nonché a qualcosa che ha senso (sicuramente per i singoli che perseguono la propria eudaimonia personale).
Ma il monachesimo, allora, sarebbe in contrasto con la ricerca di momenti fugaci di felicità, di emozioni forti e transeunti? Dovremmo forse essere tentati – tristemente, e ancora una volta – di guardare al radicalismo religioso come a una negazione del piacere e della gioia “terreni” e “terrestri”? La beatitudine collegata tradizionalmente all’idea di contemplazione ci fa capire che in realtà, parte dell’adesione a uno “spirito buono” capace di trasformare le nostre vite è proprio il saper godere degli istanti in cui tale spirito suscita in noi emozioni forti ancorché fugaci, che sono una sorta di spiraglio verso il possibile, un riflesso di luce creativa a cui non ha ancora fatto seguito un’elaborazione cognitiva, razionalizzante e dunque capace di lasciare un segno duraturo in noi.
Alla contemplazione, nel monachesimo, si giunge attraverso una vita di ricerca di conoscenze e di pratica delle medesime. Si potrebbe perciò pensare che un valore fondamentale insegnato dal monachesimo sia la perseveranza nelle avversità, qualità cruciale per affrontare le sfide della vita e raggiungere l’eudaimonia. In tal senso, saremmo molto vicini alle idee di Miháli Csíkszentmihályi, il quale vede nella resilienza l’elemento cruciale per raggiungere il benessere psicologico. Ma non è proprio così, almeno nella tradizione monastica cristiana.
Il monachesimo cristiano ritiene che ancor più decisivo rispetto alla resilienza (termine che personalmente aborrisco e trovo perfino violento) sia proprio l’esperienza del fallimento da cui si può essere rialzati solo dall’esterno: da chi ci ama a prescindere dai nostri fallimenti, dalle comunità di vario genere a cui apparteniamo, dalla società stessa. In termini cristiani, con le parole del grande spirituale belga André Louf, potremmo dire semplicemente: «La grazia può di più».
La vera felicità, nell’esperienza spirituale cristiana, non è il culmine di una vita piena e resiliente, bensì la scoperta di essere sorretti da una forza invisibile anche nell’abisso più profondo. È la perfetta letizia di Francesco d’Assisi.

Riccardo Larini
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