La felicità a Rabat
«La felicità è quando ciò che pensi, ciò che dici e ciò che fai sono in armonia». Forse sono queste parole di Gandhi che rispondono alla felicità di un missionario come me. Missionario, lo sono stato in Europa – in Francia particolarmente, per una ventina d’anni – e attualmente in Africa: sempre terra di missione. Una coerenza questa, evocata da Gandhi, che a volte appare più cristallina, a volte più tormentata. Come un equilibrio instabile di tre componenti, pensiero-parolaazione, la coerenza ha sempre il sapore di sfida.
Perché il segreto della felicità, come suggerisce qualcuno, «non è di fare sempre ciò che si vuole, ma di voler sempre ciò che si fa».
Forse, poi, felicità è per me personalmente anche questo “andare al di là” di quello che si ha, di quello che si è. Cioè, superare la propria storia, la propria geografia e i propri gusti, e andare al largo (come esprime così bene etimologicamente la lingua inglese per indicare “andare all’estero”).
Avventurarsi nel territorio – fisico, culturale, spirituale – dell’altro tiene sempre vigilanti, aperti e vivi. Perché non chiamare questa felicità di vivere? Ed è anche un continuo aggiustarsi, adattarsi, farsi all’altro… come ricorda l’insegnamento di un maestro zen ai discepoli: «En tout, soyez de l’eau!» (in ogni cosa siate come l’acqua). Fluidi, flessibili. Ciò domanda un continuo trasformare sé stessi, una conversione dei propri modi e del proprio animo per incontrare l’altro. Spesso una conversione felicemente riuscita. Mi ricorda quanto annotava Bertrand Russell: «La felicità fondamentale dipende più di qualunque altra cosa da ciò che si può chiamare un cordiale interesse per le persone e le cose. Un cordiale interesse per le persone è una forma di affetto, ma non l’affetto avido, che tende al possesso».
Forse felicità è anche quel duplice movimento di sistole e diastole – i movimenti del cuore –, del perdersi e del ritrovarsi, del dilatarsi e del raccogliersi, come dell’immergersi negli altri e nel ritrovarsi solo in una grande solitudine. Benefico movimento binario questo della vita, che non si consuma in un’unica fase, non si polarizza sotto un’unica forma, ma per me ritma l’esistenza stessa di un missionario. Solitudine e moltitudine. Unico e plurale.
«Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno» suggerisce Kahlil Gibran. Anche questa osservazione rivela la felicità di un missionario, trovandosi in situazioni di povertà anche estrema, ma confrontato spesso con risorse umane e spirituali che mostrano una resilienza sorprendente. Esserne testimone in contesti difficili e marginali riempie l’animo spesso di un intimo stupore e di umanità.
Infatti, «la vera felicità costa poco – scriveva Chateaubriand con il suo abituale “esprit de finesse” – se è cara, non è di buona qualità». Anche se qualcuno più attento al tempo e alla cronologia non mancherà di precisare che «la felicità è sempre e soltanto un istante. La felicità non è una cosa che dura. Non è un tempo, è un istante o una serie di istanti. Un punto di contatto con qualche cosa di straordinario». E per me lo è a volte, in quello che si fa. Per ricompensarvi non è neppure necessario un grazie. Basta vedere un sorriso. O un volto che si illumina, quando lo si era incontrato chiuso o sofferente. Sì, un momento di pienezza, in una vita segnata dal suo contrario. Ma, in fondo, la felicità si coniuga volentieri anche con una presenza che allevia, che alleggerisce situazioni complesse, difficili da vivere, che attrae e seduce. «Alcuni portano felicità ovunque vadano; altri quando se ne vanno» – sorride, così, Oscar Wilde.
In fondo la felicità di un missionario mescola insieme, come nel vangelo del Maestro, il cammino, la parola e il gesto. L’unica evangelizzazione che il mondo accetta è strutturata su questi tre verbi: camminare, annunciare, guarire. Qualcuno, poi, commenterà: «Se non si cammina le nostre parole non sono credibili, perché sono stantie.
Se non si parla, il messaggio rischia di rimanere ostaggio del “non detto”. Se le nostre parole non si mescolano con la carità, con il fare per i poveri, con chi è ostaggio di malattie e del male, allora è solo esercizio di retorica». L’evangelizzazione che conta è gratuita, come la felicità.

Renato Zilio
Missionario scalabriniano a Rabat, Marocco.
È interessato alla spiritualità zen. Già direttore di Migrantes Marche.