I tempi difficili e la chiave per uscirne

di Egidio Cardini

bandiera europea su cielo coperto

“Non chiedere: ‘Perché i tempi antichi erano migliori del presente?’. Questa domanda non è ispirata da saggezza”. (Qo 7,10).
Accogliere oggi questa considerazione biblica del Qoèlet, libro sapienziale, è duro e lo è soprattutto per chi, come me, ormai ha superato una soglia anagrafica che consente giudizi, confronti e analisi.
Io stesso ho la percezione, seppure rintanato nel mio angolo esistenziale, costituito dalla famiglia e da un lavoro che ormai è giunto sul rettilineo finale, che stiamo vivendo una stagione difficile e quasi inestricabile, ricolma di pericoli e lontana da una speranza che vorremmo comunque avere e che purtroppo sembra sfuggirci ogni giorno di più.
Pur con le contraddizioni della mia generazione (sono nato nel 1961, in piena crescita collettiva), ho avuto la fortuna di fare sintesi, magari faticosamente, ma di farla, avendo maturato convinzioni personali, etiche, religiose e politiche, che hanno prodotto in me alcune scelte equivalenti.
Sono felicemente un uomo di parte perché la mia storia ha contemplato la maturazione e lo sviluppo di idee, giuste o sbagliate che siano.
Per me e per molti come me la libertà, la giustizia sociale, la pace, la democrazia reale, l’uguaglianza e il progresso sono capisaldi inalienabili in un contesto sociale che mi ha educato spesso a questo e che io non ho mai dimenticato.

La libertà ha bisogno di una nuova liberazione

Non c’è libertà senza liberazione. In questo assioma si addensano tutti i bisogni e le necessità del tempo presente e, se è vero che la libertà appartiene alla natura sostanziale e soggettiva dell’essere umano, la liberazione è un itinerario complesso, variabile, mutevole, intriso di responsabilità e di condizioni storiche che cambiano di giorno in giorno.
La Liberazione che abbiamo ottenuto con il cuore e con il sangue alla fine della seconda guerra mondiale seguiva coordinate storiche, politiche, sociali e culturali che non soltanto non sono più le stesse di oggi, ma non sono nemmeno quelle di qualche decennio dopo.
La Liberazione degli Anni Sessanta passava da una contestazione di modelli autoritari che non reggevano più il tempo e si ostinavano a riproporsi, nonostante fossero ormai sistematicamente rifiutati. In questo senso abbiamo ottenuto mille Liberazioni giuste e felicemente necessarie: quella socio-economica per i lavoratori, quella politica con la partecipazione popolare in un contesto democratico, quella di una scuola per tutti, quella della configurazione dello Stato in chiave laica, quella del costume individuale e collettivo, quella della donna e della famiglia, quella delle garanzie dello Stato sociale e via dicendo.
Abbiamo creduto che quelle stesse conquiste fossero state garantite una volta per tutte e oggi ci rendiamo conto che il processo di inversione neoliberale e finanche reazionaria, oltre che di involuzione culturale, ci costringe a erigere una nuova trincea di difesa di quanto guadagnato in quegli anni.
Purtroppo, dopo essere cresciuti in termini politici, sociali, economici, culturali e finanche religiosi, ci siamo arenati in una palude a metà strada tra la paura del futuro, l’ostilità verso le nuove forme del presente e la nostalgia di un passato che vorremmo riproporre senza nemmeno conoscerlo più.
Dunque, quale Liberazione ci attende oggi? Quali responsabilità ci incalzano? Io penso che il destino della libertà, così come siamo stati in grado di coltivarla in Occidente, sia dipendente da un processo di crescita culturale e di presa di coscienza del valore antropologico della vita in quanto tale. Non a caso la crisi presente ci porta in eredità uomini e donne che trasognano su improbabili società autoritarie fino al totalitarismo come soluzione di qualsivoglia problema.
Il bagno di libertà, di cui abbiamo goduto, adesso deve trasformarsi in un’assunzione di responsabilità collettiva dentro la tutela dei diritti individuali e comunitari e soprattutto attraverso la maturazione di un senso della comunità oltre ogni individualismo.
La sfida della nuova liberazione che ci interpella è rappresentata da alcune linee invalicabili: l’intangibilità dei diritti della persona umana, la riconversione culturale dentro la fatica dello studio che genera conoscenze, competenze e soprattutto consapevolezze, la lotta contro ogni forma di autoritarismo, la maturazione di una grande capacità di lettura del presente e di progettazione del futuro. Purtroppo su queste aspettative oggi scopriamo le nostre debolezze e le nostre carenze.
L’Occidente in crisi, di cui si parla sempre più spesso dalle parti dei totalitarismi, deve recuperare il significato collettivo del Bene della persona umana e del senso della libertà intrinseca che si fa costruzione politica democratica, edificio sociale condiviso, indirizzo economico di giustizia retributiva, crescita etica e culturale.
I passi concreti allora sono facilmente individuabili: il recupero delle strutture dello Stato sociale, la centralità della persona nella famiglia e nel lavoro, la rivalutazione del tesoro prezioso degli studi popolari, la tutela della condizione della Terza Età.
Finito il tempo della contestazione e della rivendicazione e superato il tempo della difesa, deve aprirsi il tempo di queste nuove forme di liberazione. Una libertà senza processi liberatori resta soltanto una chiacchiera.

La giustizia per gli ultimi e per i rifiutati, prima linea del fronte

Ormai ce lo siamo detti molte volte. Raramente abbiamo trascorso un periodo come l’attuale con un odio rancoroso verso l’ultimità come condizione umana imposta a chi ne è vittima. Oggi essere poveri, deboli, migranti, fragili, in fondo alla scala sociale è considerato un peccato capitale da punire duramente con l’esclusione e con il disprezzo.
Con grande franchezza vi dirò che ho sempre contestato la spiegazione fasulla, che attribuisce al crescente senso di insicurezza personale e collettiva, questo disagio pericoloso.
Non capisco di che cosa dovremmo essere insicuri. E’ venuto il momento di sfatare il mito dell’insicurezza per giustificare l’odio.
Al contrario io credo che sia semplicemente venuto meno il senso della giustizia come riconoscimento del diritto dell’altro a godere del Bene che costruisce e struttura la condizione umana. La disgregazione etica è un processo di chiusura in sé stessi in una chiave radicalmente egoistica. In fin dei conti giriamo sempre intorno al problema dei problemi, che è la caduta del senso della comunità e del valore dell’Altro come forma di ricchezza.
La questione è, appunto, eminentemente etica. Nella giustizia il ruolo dello “ius”, inteso come riconoscimento di ciò che è dovuto paradossalmente al di là dei meriti personali, è un atto di coraggio di natura laicamente e religiosamente “evangelica”. Non importa se si è religiosi o meno. Importa la struttura morale della persona che riconosce il diritto dell’altro perché ne riconosce l’importanza esistenziale.
Dunque la giustizia sociale oggi è la prima linea del fronte ed è anche l’istanza contestualmente più urgente e più debole.
Si tratta di recuperare la stagione dei diritti con lotte dure, quasi in forma sacrificale, da quelle sindacali a quelle politiche. Non è difficile individuarne i contenuti: la crescita dei salari, la garanzia di pensioni dignitose, l’impostazione rigorosamente pubblica del servizio d’istruzione, educazione e formazione e infine l’assistenza sanitaria e sociale in forme altrettanto pubbliche e soprattutto capillari sui territori.
Deve finire il tempo delle illusioni neoliberali di un paleocapitalismo che garantisce servizi fondamentali soltanto a chi garantisce a sé stesso i fondamenti del benessere economico.
Tutto ciò è strutturalmente immorale e inaccettabile.
Gli ultimi, i rifiutati, gli odiati, i poveri sono la nostra ragione per il cambiamento del mondo. Il giorno in cui ho visto salire da solo su un autobus urbano di Rio de Janeiro un povero senza gambe e senza braccia, senza che nessuno facesse una piega, o quello in cui ho visto la Polizia Municipale carioca portare via i materassi lerci su cui dormivano i ragazzi di strada, nascosti in un buco sotto il lungomare di Copacabana, ancora senza che nessuno facesse una piega, o quello in cui ho visto un’anziana abbandonata come un oggetto sullo scheletro di un presunto divano nella favela di Ramos, di nuovo senza che nessuno facesse una piega, ho compreso che la giustizia ha un fronte dove scorre il sangue di questi esseri umani che devono assolutamente essere liberati. Non ci sono alternative.

Uomini e donne di pace, non finti pacifisti dalla parte dei despoti

Dentro queste contraddizioni velenose alla fine molti sono stati capaci di sporcare anche la pace, che, in fin dei conti, è la contemplazione laica della bellezza della vita degli esseri umani e del mondo ed è la condizione essenziale per affermare la libertà e la giustizia sociale.
Ebbene, affermo con forza e con orgoglio che io sono un uomo di pace, non un pacifista.
Su questo argomento conservo una posizione che desidero descrivervi con l’immagine di Carola Rackete, la donna di mare nota a noi italiani per il caso degli sbarchi di migranti da lei gestiti in una guerra giudiziaria con l’allora Ministro dell’Interno Salvini.
Come ho già detto giorni fa, Carola, donna di sinistra più che mai, si è detta favorevole agli aiuti militari all’Ucraina perché crede che non sia possibile ristabilire la giustizia senza ripristinare il diritto, anche se con mezzi militari di legittima difesa. Lo ha dichiarato pubblicamente, venendo di fatto cancellata, come si fa con una gomma a scuola, dal registro della stessa sinistra europea. Da allora Carola è praticamente morta.
Io ribadisco di essere uomo di pace senza rinnegare il principio sacrosanto della legittima difesa e, nel caso della guerra russo-ucraina, vi è chiarezza assoluta su ogni ragione, ogni azione, ogni movimento, ogni conseguenza, senza giustificazioni paranoiche o strumentali.
La Russia di Putin ha aggredito l’Ucraina di Zelensky perché la vuole. Punto.
Lo ha fatto come un uomo che violenta una donna perché la vuole sessualmente. Punto.
Lo ha fatto perché considera quella terra come propria e quel popolo come degno di una condizione servile verso sé stessa. Punto.
Il resto appartiene a un “cliché” vetusto e irritante, amato da chi odia l’Occidente e la sua democrazia e allora, a mio modestissimo parere, questo non è il modo migliore per difendere e per affermare la pace.
Oggi il pacifismo rigato delle bandiere multicolori della pace significa di fatto odio verso l’Occidente e accanimento contro le vittime di questa guerra. Nessuno lo dichiara, ma le tergiversazioni e le scuse prodotte davanti a questa tragedia immane rivelano senza indugio la colpa di un sostegno silenzioso al diritto del più forte e del più violento.
Questo accade perché si continua a ragionare con gli schemi del Novecento, dove la critica all’Occidente, come da me già ripetuto più volte, aveva un senso logico e storico. Oggi la pace è la dimensione di una convivenza trigemellare con la giustizia sociale e con la democrazia. Le barriere ideologiche si sono frantumate, i nemici di un tempo si sono alleati con gli amici di un tempo. Accade che uno stolto e cinico reazionario come Trump si allei con un ex-comunista sovietico come Putin. In mezzo ci sono le tre vittime sacrificali chiamate pace, giustizia e democrazia e i popoli con esse.
Allora io contesto il pacifismo ideologico perché lo trovo assurdamente in malafede, incapace di difendere davvero la convivenza, l’incontro e la comunicazione tra i popoli.
Sfido la sua ipocrisia, straccio le sue bandiere vecchie e stinte, riporto all’attenzione di tutti l’obbligo morale di una pace nella democrazia rispettosa dei diritti di tutti e non degli equilibri strategici di un tempo ormai passato.
Dopodiché per noi resta l’imbarazzo più grande, rappresentato dalle armi.
Noi siamo estranei alla logica delle armi e non amiamo l’odore della polvere da sparo e delle canne roventi dei fucili. Però crediamo nella legittima difesa proporzionale all’offesa e funzionale al ristabilimento integrale del diritto violato. Non diamo spiegazioni disoneste sulle ragioni dei conflitti (leggendaria è quella sull’espansione, per molti sbagliata, della NATO a Est) per giustificare di soppiatto sempre il diritto del più forte e del più violento.
La pace è una condizione storica che non ammette strumentalizzazioni e quindi io contesto i finti pacifisti che di fatto stanno dalla parte dei despoti.

Ci giochiamo la democrazia

Alla fine ci giochiamo la democrazia.
Come è possibile non capire che oggi sono i totalitarismi i veri nemici da fronteggiare? Tutte le chiavi ideologiche si sono disgregate davanti a un progetto globale di oppressione che si avvale del dispotismo e della privazione della libertà per generare un ordine nuovo.
L’ordine nuovo, che curiosamente nell’Italia degli “anni di piombo”, era stato assunto come proprio nome da un movimento neofascista, oggi è davanti a noi.
Io non lo accetto perché credo che la democrazia abbia un volto solo, ma abbia anche bisogno della realizzazione di numerose circostanze radicali e definitive: la diffusione di una cultura popolare, l’assunzione del valore dell’uguaglianza, quella libertà che si incarna in forme e in progetti di liberazione storica.
Ci giochiamo la democrazia nella misura in cui non riusciamo a prendere coscienza che il bene comune è superiore al bene individuale perché lo determina e lo difende. Una società ricurva su interessi particolari e radicata in paure spesso provocate ad arte dalle classi dominanti non ha futuro.
Ecco perché oggi io sostengo l’unico progetto politico e istituzionale che possa garantire un futuro di libertà e di giustizia, vale a dire gli Stati Uniti d’Europa, dove le plurisecolari divisioni tra lingue, sistemi giuridici ed economici e confini fisici possano finalmente cadere.
Gli Stati Uniti d’Europa sono addirittura una necessità ancora prima che un valore. Si tratterà di reagire e di difendersi da Est e, per la prima volta, perfino da Ovest.
Penso che non esista una terra più libera, giusta, pacifica e democratica come è effettivamente stata l’Europa degli ultimi ottant’anni.
Non sopporto più le chiacchiere sui fantomatici gravi errori che sarebbero stati commessi dall’Europa negli ultimi decenni. Se gli europei hanno qualcosa da farsi perdonare (e lo hanno), ciò riguarda le devastazioni del colonialismo passato. Però oggi non possiamo pagare le nostre responsabilità su un passato coloniale di gravissimo sfruttamento e addirittura di annientamento di intere civiltà, concedendo ai sistemi totalitari la primogenitura sull’ordine mondiale e il diritto di dettare le regole di una convivenza priva della dignità umana.
L’Europa degli ultimi decenni ha commesso pochissimi errori e ha proposto modelli di sviluppo umano a livello planetario.
Ci giochiamo la democrazia nella misura in cui non crediamo alla definizione di uno Stato europeo, federale, unitario, indipendente e sovrano, in grado di aprire relazioni pacifiche e durature con popoli finalmente liberati dai totalitarismi.
Pur senza commettere il peccato di incensazione di sé stessi e pur riconoscendo ancora molti limiti nell’integrazione europea, ne abbiamo l’autorità morale e la chiave per uscirne.
Davvero possiamo uscire da questi tempi difficili con decisioni coraggiose e rapide, magari pagando anche il costo di conflitti di natura militare in forma di autodifesa.
Però stavolta non si scherza. Stavolta la libertà, la giustizia sociale, la pace, la democrazia reale e l’uguaglianza non sono più principi astratti.
O essi entrano in un progetto politico-istituzionale, economico-sociale e soprattutto etico o finiremo frantumati.
Permettetemi di dirlo: Dio non voglia. Ma non vorrà.

Foto di Sara Kurfeß teal flag under cloudy sky, da unsplash.com

Egidio Cardini

insegnante