Eremiti e orizzonte comunitario
Nel testo L’éducation des adultes, pubblicato a Parigi quasi ventinove anni fa, il filosofo dell’educazione Guy Avanzini rilanciava il costrutto dei “modelli mutativi”. Nelle pratiche sociali, scriveva, esistono delle “realizzazioni anticipatrici”, cioè delle sperimentazioni che durano da tempo, che hanno assunto consistenza e plausibilità e che potrebbero fungere da modello per futuri mutamenti sociali. I verificabili successi di tali realizzazioni «garantiscono che non si tratta di qualcosa di chimerico». La contemporanea precarietà che le caratterizza, tuttavia, indica che il loro pieno riconoscimento «dipende da trasformazioni che esse non possono indurre da sole». In altri termini, la libertà con la quale si possono sperimentare tali realizzazioni è al tempo stesso un punto di forza e di debolezza, perché può contare sulla mobilitazione di un notevole slancio endogeno ma necessita sul lungo periodo di un riconoscimento esogeno.
Vale dunque la pena dare vita a tali sperimentazioni? Secondo Avanzini sì, perché «gli sforzi così dispiegati non sono vani ma indispensabili se si vorrà, un giorno, cogliere e sfruttare una congiuntura propizia. Difficilmente si riuscirebbe a sfruttare ciò che una tale congiuntura può offrire in termini di possibilità, se non preesistessero dei modelli già sperimentati. Essa può farli suoi, ma non potrebbe crearli dal nulla».
Le parole del filosofo francese recentemente scomparso rappresentano un lascito importante. Ci ricordano che vale sempre la pena tentare strade nuove, anche se per il loro pieno riconoscimento occorrerà adattarsi un giorno a una sorta di legittimazione esterna, nella consapevolezza però che nessun mutamento sociale significativo viene davvero creato da questo “esterno”, se non esiste già da qualche parte.
Realizzazioni collettive versus realizzazioni individuali?
Ripensavo a queste affermazioni rileggendo la rubrica I paesi di domani apparsa sul penultimo numero di madrugada, dedicata alle realizzazioni collettive degli ecovillaggi. E mi sono chiesto se esse possano valere anche per realizzazioni più solitarie come quelle a cui danno vita gli eremiti.
Sul web c’è tutto un fiorire di attenzione verso questo fenomeno, con video dedicati alle tante figure di eremiti presenti nel nostro paese, prevalentemente in aree montane. In letteratura ne parlano ampiamente Isacco Turina (I nuovi eremiti, 2007), Carlo Bevilacqua (Into the silence, 2014), Espedita Fischer (Eremiti, 2016), Antonella Lumini e Paolo Rodari (La custode del silenzio, 2016), Frédéric Vermorel (Una solitudine ospitale, 2021), Joshua Wahlen e Alessandro Seidita (Voci dal silenzio, 2021, che è anche un documentario), Giovanni Giambalvo Dal Ben (Il silenzio e i suoi sentieri, 2024). Ci aiutano con le loro belle immagini il già citato Carlo Bevilacqua e soprattutto Eliana Gagliardoni (La via dell’Esychia, 2023).
Essere eremita ha a che vedere con la dimensione collettiva de I paesi di domani o ne è la negazione solipsistica? Come interpretare il concetto antico di fuga mundi? Fuga come sdegnoso rifiuto o come messa in salvo? Nel primo caso il mondo di domani potrebbe non interessare. Nel secondo caso interessa eccome.
Mettere in salvo
Cosa intendo con messa in salvo? Lo spiegherò con un ricordo. Trent’anni fa ho sostato qualche giorno all’Eremo di Santa Caterina del Sasso, sul Lago Maggiore. Era allora tenuto aperto da Angelo Maria Caccin, un domenicano padovano che era stato priore nei conventi dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia e di Santa Maria delle Grazie a Milano, prolifico scrittore ed esperto dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, ospitata appunto nell’ex refettorio del convento di Milano.
Una sera, dopo aver accompagnato gli ultimi visitatori all’uscita e chiuso il cancello dell’eremo, ci siamo seduti su una panca ricavata dalla falesia su cui l’eremo è abbarbicato. Grande affabulatore, non ricordo più perché fosse arrivato a parlare di monachesimo.
Ricordo solo quando disse che il monachesimo benedettino aveva salvato la cultura del lavoro nella lunga transizione legata al declino dell’Impero Romano. I monasteri erano stati isole di salvaguardia in un mare di incerta transizione. E il monachesimo di Benedetto era iniziato dopo anni di eremitaggio tra le rupi di Subiaco.
Mi è tornato in mente questo episodio leggendo una frase di Paola Biacino, eremita trentina sulle montagne cuneesi, contenuta ne La via dell’Esychia: «Gli eremi sono punti energetici sparsi sulla terra». Non conta necessariamente la contingenza della dimensione solitaria o di quella collettiva. Conta l’orizzonte comunitario in cui si è immersi.
Lasciare in pace
L’eremita ha bisogno di isolarsi, certo. Ha bisogno che tacciano le voci intorno, le sollecitazioni, le aspettative. In questo senso è come se raggiungendo o costruendo il suo eremo ci dicesse di lasciarlo in pace. Questo può turbare chi resta, può generare ammirazione come pure invidia, incomprensione e addirittura oblio. È senz’altro presente anche una componente caratteriale, nella scelta dell’eremita. Così come pesa il percorso biografico. E tuttavia anche gli eremiti contribuiscono a costruire i paesi di domani. Ci ricordano che in qualsiasi costruzione sociale c’è un livello oltre il quale non è possibile azzerare le persone, la loro sensibilità, la loro libertà.
C’è un livello di guardia superato il quale scatta la possibilità di mettere in salvo l’umanità prima che si disperda.
Essere eremiti, allora, non è tanto un voler essere lasciati in pace in senso esteso, quanto piuttosto un alternare solitudine e accoglienza con ritmi considerati accettabili dalla persona. È, forse, presa di distanza da tanti processi che ci fanno sentire eterodiretti.
La pace non è solo silenzio, assenza di voci, riservatezza. È maggior autonomia decisionale, recupero dei ritmi naturali, confidenza coi pensieri, selezione delle parole.
Narrazioni divergenti
Fin dalla prima lezione nei suoi corsi di storia medievale all’Università di Padova, Antonio Rigon amava socchiudere gli occhi e aprire quelli dei suoi studenti rispetto ai tanti pregiudizi riguardanti il Medioevo. Abbagliati dai fasti dell’Impero Romano da un lato e dallo splendore del Rinascimento dall’altro, noi tutti avevamo assorbito un immaginario fatto di secoli bui, fangosi, malsani, senza orizzonti culturali ampi. E il docente ci ricordava invece come nel Medioevo fossero nati i comuni, le università, le banche, gli ordini mendicanti…
Non sempre riusciamo a collocare eventi e trasformazioni nella giusta prospettiva. Siamo spesso sopraffatti dalla contingenza ed è normale, almeno finché qualcuno inverte la narrazione o ci ricorda con la sua vita concreta che un altro mondo è possibile.
Non sappiamo se sarà dominante o residuale, ma è possibile. È l’elogio della biodiversità, da salvaguardare fino alla fine, contro ogni forma di omologazione eterodiretta. Al limite anche solo per testimoniare questa diversità possibile. Ma forse anche per veder sbocciare, domani, dei paesi in cui le tante forme dell’umano siano ancora il tratto distintivo.

Davide Lago
Docente di pedagogia generale, formatore in percorsi autobiografici,
componente la redazione di madrugada.