Premierato, forma di governo e funzione di governo

di Cortese Fulvio

Una (nuova e discussa) riforma costituzionale
Nel mese di novembre 2023 è stato presentato dal Governo un disegno di legge costituzionale volto a introdurre un meccanismo di elezione diretta del Presidente del Consiglio. Si tratta di una nuova proposta di riforma costituzionale, che nell’immediatezza del dibattito è stata definita come introduzione del cd. “premierato”.
I punti qualificanti del disegno di legge sono i seguenti: il Presidente del Consiglio viene eletto dai cittadini simultaneamente all’elezione di Camera e Senato; la legge elettorale deve prevedere un premio che consenta alle formazioni collegate al Presidente eletto di ottenere il 55% dei seggi disponibili; il Presidente eletto viene comunque nominato dal Presidente della Repubblica, che, su proposta del primo, nomina anche gli altri Ministri; il nuovo Governo deve presentarsi alle Camere per ottenere la fiducia; se questa non viene data, allora il Presidente rinnova comunque l’incarico al Presidente eletto, affinché formi un nuovo Governo; se anche quest’ultimo non riceve la fiducia, allora il Presidente deve sciogliere le Camere e indire le nuove elezioni; nell’ipotesi in cui il Presidente eletto, per qualsiasi motivo, cessi dalla sua carica, il Presidente della Repubblica può dare l’incarico di formare un nuovo governo al medesimo presidente eletto, se dimissionario, o a un parlamentare eletto nelle formazioni collegate allo stesso Presidente eletto, affinché realizzi l’indirizzo politico e di programma su cui era stata ottenuta la originaria fiducia; tuttavia, se il nuovo Presidente non ottiene la fiducia, allora si procede allo scioglimento delle Camere.
Su questa disciplina si è presto scatenata un’accesa discussione, sia sul piano politico, sia su quello tecnico. A tale riguardo, in particolare, al di là dei rilievi (per lo più severi) sullo stile della scrittura e delle riflessioni più generali sull’opportunità di un simile cambiamento o sulle sue finalità complessive (favorire la governabilità ed evitare trasformismi: temi su cui le opinioni possono essere, e in effetti sono, assai divaricate), molti costituzionalisti hanno evidenziato problemi specifici.
Ad esempio, si è sottolineato che il premio di maggioranza così concepito sarebbe in contrasto con il principio supremo dell’eguaglianza del voto; che vi è una peculiare, intrinseca, contraddittorietà nell’assetto generale della riforma, perché la previsione sulla possibilità di nominare un Presidente diverso da quello eletto, pur proveniente dalle medesime formazioni politiche collegate a quello eletto, renderebbe quest’ultimo ostaggio delle molteplici e frequenti fibrillazioni interne alle articolazioni della maggioranza (sicché il “Presidente n. 2” sarebbe paradossalmente più forte del “Presidente n. 1”); oppure, ancora, che il mutamento di equilibrio dovuto alla presenza di un Presidente del Consiglio direttamente eletto dai cittadini comporterebbe cambiamenti sostanziali e decisivi sulla definizione del ruolo e dei poteri del Presidente della Repubblica, importando la necessità di mettere mano, inevitabilmente, anche ad altre parti della Costituzione.

Tra forma di governo e materia elettorale
Il tentativo di mutare la forma di governo nel senso di rafforzare posizione e prerogative dell’Esecutivo – e, più precisamente, di colui che è chiamato a guidarlo – non è nuovo. È un disegno che viene da lontano e che, a partire dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, col debutto della cd. “Seconda Repubblica”, ha sostanzialmente caratterizzato, innanzitutto, buona parte delle riforme elettorali che si sono succedute da quel momento in poi.
Il fatto che si sia a lungo cercato di agevolare una via elettorale alla stabilità dell’azione di governo e alla sua maggiore “riconoscibilità” da parte dei cittadini è elemento che si può valutare in vario modo. Da un lato, esso corrispondeva appieno all’idea (a lungo condivisa dalla maggioranza degli interpreti, da sempre coscienti che la materia elettorale ha natura costituzionale) che la forma di governo parlamentare assunta dalla Repubblica fosse suscettibile di realizzazioni concrete anche molto differenti, variabili – per effetto delle formule elettorali – da un modello di massimo protagonismo delle compagini politiche presenti nelle Camere a un modello di più forte presenza e incidenza del Governo. Alla stessa maniera, quella originaria impostazione soddisfaceva pure la convinzione (consolidatasi con la crisi dei partiti della “Prima Repubblica” e mediata dagli studi di Giovanni Sartori) che proprio mediante la definizione delle regole del conflitto elettorale si potesse intervenire in modo efficace non solo sul consolidamento di uno dei possibili modelli della forma di governo (il come si vota quale strumento per legittimare in modo razionale un efficiente sistema di realizzazione delle politiche pubbliche), ma si riuscisse, addirittura, a cambiare i comportamenti della classe politica (e a condurre, così, il sistema dei partiti a rimettersi in gioco in una dinamica di “democrazia dell’alternanza”).
Purtroppo questo secondo postulato non ha dato vita a sperimentazioni del tutto riuscite. Ed è fin troppo nota la storia del susseguirsi quasi schizofrenico e disorientante di più sistemi elettorali, frutto di intenzioni tra loro apertamente rivali (dal “Mattarellum” al “Porcellum”, per poi passare all’“Italicum” e giungere, infine, al cd. “Rosatellum”); un percorso, questo, punteggiato da due rilevanti sentenze della Corte costituzionale (nn. 1/2014 e 35/2017), nelle quali il margine di manovra per intervenire sulla forma di governo per via elettorale, e senza modificare la Costituzione, si è via via ridotto. Pertanto, il carattere tipico delle leggi elettorali – quello di essere “leggi di combattimento” – se da un lato è stato fin troppo esaltato dalle strumentalizzazioni delle maggioranze volta per volta autrici delle riforme ora ricordate, dall’altro lato si è perso o “sciolto” nel margine ristretto delle opzioni rimaste praticabili.
Nel mentre, l’astensionismo e la delusione nei confronti della cosa pubblica nella sua interezza sono aumentati.
Ecco, dunque, il terreno, a dir poco accidentato, su cui è atterrata la nuova proposta di riforma costituzionale, che, all’evidenza, trasferisce il conflitto a un altro livello, ancor più delicato, perché suscettibile soltanto in apparenza di garantire alla politica spazi di agibilità realmente maggiori o più profondi (o veramente utili allo scopo di riavvicinare e rifidelizzare gli elettori).

La funzione di governo e la sua importanza
Ciò premesso, non c’è dubbio che le istituzioni del nostro Paese continuino a risultare bisognose di un serio momento di meditazione.
Che l’opzione per la forma di governo parlamentare fosse stata accompagnata, sin dai lavori dell’Assemblea Costituente, dalla esplicita condivisione della necessità di prevedere «dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo» (così nel famoso ordine del giorno Perassi, del 4 settembre 1946) è un’acquisizione incontestabile. Come lo è il fatto che a simili accorgimenti non si sia posta mano, pur a fronte di episodi (già risalenti, a ben vedere, al principio degli anni Cinquanta…) di ripetute forzature nell’esercizio delle prerogative delle maggioranze e dei relativi governi. Episodi che, certo, sono diventati cronici in una fase successiva (a decorrere dagli anni Ottanta) e che, nonostante ciò, ripetono il segno di una fragilità costitutiva.
Parallelamente è bene sottolineare che negli ultimi tempi si è intensificato, specie nel contesto degli studi prodotti in ambito internazionale, anche il dibattito sulla crisi del governo parlamentare e sull’importanza – ai fini di una complessiva razionalizzazione della forma di governo – non tanto delle opzioni per modelli astratti, ma della più ampia valutazione della tenuta e del rendimento della funzione di governo. Che è profilo che non coincide, né quindi si esaurisce, nella presupposizione che la scelta di uno schema di rapporti tra gli organi costituzionali sia aspetto risolutivo, ma implica una verifica più attenta sulla capacità che hanno le istituzioni, nelle loro relazioni, di individuare e realizzare in modo effettivo e satisfattivo le politiche pubbliche. E di farlo, segnatamente, in una cornice di crescente complessità, in cui il fattore della sovranità nazionale non è più l’unica determinante.
In definitiva, se è vero che anche le (per ora quasi insormontabili) criticità del disegno di legge costituzionale sul “premierato” non dovrebbero arrestare una riflessione sull’adeguamento della forma di governo nella direzione già traguardata dai Costituenti, è altrettanto vero che a essere (ancor più) urgente è la focalizzazione del dibattito sui modi per garantire una buona amministrazione: che sia tecnicamente preparata e aggiornata alle sfide attuali; che sappia adattarsi alla risoluzione rapida e riconoscibile delle questioni più imprevedibili; che sia dotata di un linguaggio e di un’organizzazione proporzionati alle domande che la società pluralista e tecnologica pone in maniera via via più insistente, sul piano degli interessi generali come su quello dei diritti.
Sottovalutare questo aspetto sarebbe esiziale: sposterebbe l’attenzione collettiva da ciò che dovrebbe essere viceversa prioritario, risolvendo la discussione sulla forma di governo in una guerra del tutto “vuota” tra opposte (ed eccessivamente emozionate…) tifoserie.

Fulvio Cortese

Fulvio Cortese

professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico,
facoltà di giurisprudenza,
università degli studi di Trento