Parole nuove cercasi

di Adriano CIfelli

Soli non si è mai

«Ospitalità significa principalmente creazione di uno spazio libero dove lo straniero possa entrare
per diventare amico anziché nemico. Ospitalità non significa mutare le persone ma offrire loro uno
spazio dove il mutamento possa avvenire… Non è un metodo per fare del nostro Dio, della nostra
strada, dei criteri di felicità ma l’offerta di un’occasione perché gli altri trovino il loro Dio, la loro
strada».
[Henry Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo]

La mia casa, un porto di terra
Amo l’ospitalità, l’accoglienza, il fare casa con chi vuole condividere, anche solo per un pezzo, la sua strada con me. Prendendo a prestito un’espressione non mia, amo definire la casa dove vivo un porto di terra. Un luogo libero e franco dove chi vuole può sentirsi atteso e può sperimentare la gioia dell’amicizia e della fraternità. Credo nella fiducia che non sempre si dà solo a chi la merita, ma anche come credito a chi, pur non conoscendolo, lo considero fratello e amico.
Il vangelo ci ricorda come Gesù invitava all’accoglienza. Dava anche consigli sul come essere accolti. Condividendo ogni cosa e scuotendo la polvere sotto i sandali nel caso ci fosse rifiuto. Soprattutto invitava a gesti di bene, come dare un bicchiere d’acqua, senza etichette o in base ad appartenenze.
Credo che tutta la storia dell’Europa sia intessuta da questa radice profonda umana ed evangelica dell’ospitalità. I monasteri antichi e moderni hanno una foresteria. Nei paesi e nelle città ci sono ostelli. La radice profonda è riconoscere l’altro come fratello. Non per forza un nemico. Ma oggi sembra che il mondo stia sprofondando di nuovo nella barbarie.
Ho letto con passione Paolo Rumiz, che nel suo Verranno di notte scrive: «Vi auguro di non sentirlo mai quell’odore è lo stesso tanfo dei poteri selvaggi che ci schiacciano puzza di censura sul libero pensiero i miei occhi vedono gente che tace e si adegua le orecchie sentono dire “nazione” con frequenza sospetta la lingua sta cambiando la parola “libertà” si ascolta sempre meno anche “pace” è bocciata, è sinonimo di codardia nella mia Italia e altrove i ragazzi che portano la sua bandiera sono presi a manganellate giovani schedati come criminali giovanissimi anzi, quasi bambini hanno dovuto ricoverarli in pediatria ragazzini odiati in quanto tali in un’Europa di vecchi impudenti che osano chiedere un futuro di fratellanza e non di guerra e non sanno che il cambiamento in peggio è già partito, dal vocabolario».
Una barbarie che mina nelle fondamenta i pilastri della comune convivenza bella e necessaria.

Gesti di profezia
Amo la mia terra, il Molise, e ne narro le sue bellezze come i suoi limiti. Amo accogliere chi, con altri occhi, me la mostra in modo nuovo.
L’estate scorsa ho sperimentato un momento autentico e profondo di ospitalità e di incontro. Piccoli gesti di profezia per un mondo che può e deve essere migliore.
Ventidue giovani, accompagnati dalla presidente di Macondo e dagli animatori, sono arrivati in un pomeriggio caldo di agosto alle pendici del Matese. Pur non essendo un bravo organizzatore, ho voluto che ognuno si sentisse a casa. In autenticità. Questa terra piccola e incastonata tra gli Appennini e il mare Adriatico si è manifestata in tutta la sua schiva ma profonda bellezza.
Un viaggio nella natura alla scoperta del parco del WWF, con il suo reticolato sotterraneo di radici che gli alberi hanno come un’antica rete di connessione che oggi noi chiamiamo internet.
Gli alberi comunicano con le loro radici profondissime, come ci spiegava la guida. I tre grandi faggi chiamati fratelli e ultrasecolari erano lì a testimoniare che non tutto dipende da noi e che anzi spesso la nostra impronta devasta ciò che abbiamo intorno.
Abbiamo esplorato e riflettuto sul bene prezioso di sorella acqua.
Limpida nei suoi ruscelli e purtroppo sempre più scarsa. Al pari di altri luoghi, il Molise vive una carenza idrica per via di cambiamenti climatici e cattiva gestione.
La bellezza della natura si intreccia con le nostre scelte politiche e quotidiane che possono fare la differenza.
I giovani presenti con le loro riflessioni mi sono apparsi come speranze di futuro. Attenti. Non come qualcuno vuole descriverli: vuoti e immaturi. Forse si trovano a vivere mondo che attraversa un momento difficile. Di transizione. Di cambiamento profondo.
Climatico, culturale, antropologico e sociale.
Come sempre però, nella storia, ci sono tempi che, pur sembrando bui, hanno acceso luci soprattutto grazie ai giovani. Lo era Francesco di Assisi quando iniziò la sua avventura e lo erano i giovani di Tienanmen. Lo sono quelli iraniani e tanti a cui il mondo chiede nuova cura. Sono convinto che ne siano capaci.
All’altezza del compito.
Li ho visti attenti mentre esploravamo antiche rovine che li riportavano indietro nel tempo e poi ridere e ballare nella piazza del paese, dove erano in tanti ad accoglierli. Qualcuno diceva: «Se ne vedono sempre di meno in giro», di giovani.
Il Molise vive uno spopolamento senza sosta unito alla denatalità. Restare è difficile ma qualcuno lo fa; come Gabriele, giovane agricoltore che abbiamo incontrato nella Fattoria Griot dove, insieme a un altro contadino, musicista, filosofo, porta avanti un avamposto di profezia per combattere il male oscuro chiamato rassegnazione. Restare è un diritto come lo è quello di andare e tentare il viaggio. Serve coraggio. E ne abbiamo visto.

Coltivare la speranza
E servono parole, parole nuove per dire quello che viviamo.
Parole per dire l’orrore che ci scorre accanto.
Parole per ridire la pace in un tempo sconvolto da guerre.
Parole che non siano generate da una cosiddetta intelligenza artificiale.
Parole che nascono dal cuore e dalla realtà accolta, per quello che è.
Parole per dire ai giovani non solo il passato che hanno alle spalle ma per tracciare con loro un futuro.
Parole che diano senso alla violenza che ogni giorno sempre più cogliamo in ogni aspetto della vita. Aggressività covata spesso tra solitudini spaventose, che il tempo del covid ha solo mostrato senza lasciarne un vero miglioramento. Solitudini che non si vincono con contatti virtuali ma che richiedono gesti e abbracci.
Aiutare a vincere la solitudine e il vuoto spesso palpabile come 19 febbraio 2003, Mahler Chamber Orchestra.
nelle parole di chi dice «ho ucciso per vedere l’effetto che faceva» è urgente e non rimandabile.
La risposta non può essere, come fa il governo più fascista degli ultimi tempi, quella di inasprire pene, spostando il problema in carceri sempre più affollate e problematiche, soprattutto quelle minorili.
Non serve aumentare le fattispecie dei reati o mettere il 5 in condotta che porta alla bocciatura. Ci pensa già la vita a farlo.
Servono adulti, educatori, persone appassionate, che trasmettano vita e la sua grammatica alle nuove generazioni.
Si dirà che un piccolo seme non fa un intero raccolto ma di certo toglie spazio alla rassegnazione. I giovani di Macondo sono un piccolo seme, un laboratorio di umanità. Innestano le radici nella storia generosa che li ha preceduti per potere affrontare ogni stagione.
La loro partenza mi ha lasciato un dolce sapore. Hanno visitato una terra che forse non conoscevano. Ne hanno gustato molto aspetti.
Ora è il tempo dell’attesa che il seme maturi. Servirà tempo.
Servirà fiducia.
Nel frattempo, guardo ancora questo pezzo di terra, dove vivo e coltivo la speranza che il seme torni a portare frutto. I tramonti qui sul Matese sono colorati e profondi. A volte mi mettono tristezza.
Ma soli non si è mai. Basta attivare le proprie radici e connettersi, per ritrovare ciò che di più autentico ci appartiene: la vita.

Adriano Cifelli

componente la Segreteria Generale di Macondo, prete, svolge il suo ministero a san Giuliano nel Sannio e Baranello (CB) dove si confonde con il mondo nell’accoglienza dell’altro e nel dono di sé.