OpenAI e la terza illusione dell’intelligenza artificiale
Sam Altman guida di nuovo OpenAI, dopo essere stato licenziato per mancanza di “trasparenza” dal consiglio di amministrazione della società no profit che lui stesso aveva voluto perché nelle precedenti innovazioni di internet si era sempre passati dall’interesse per l’umanità ai soldi. La prima innovazione fu quella della “democrazia del web” del 1996 di J.P. Barlow che portò poi a dire al fondatore di Twitter Evan Williams «credevo di dare più libertà scambiando idee e informazioni in rete. Sbagliavo». La seconda utopia è quella che la creazione di social network come Facebook, Instagram, TikTok e altri, instaurando più relazioni virtuali, ci potesse rendere più umani, il che si sta rivelando non vero in quanto le relazioni che contano per le persone sono quelle reali.
Altman, partendo da questi fallimenti (dall’idea del bene comune si è poi sempre passati al massimo profitto, con aumenti pazzeschi delle disuguaglianze e distorsioni di ogni tipo) aveva creato una società no profit che lo controllasse, garantendo l’obiettivo del “bene comune”. Altman per primo sa che l’Intelligenza Artificiale può diventare l’ennesima innovazione commerciale, ma può anche comportare rischi “sistemici” (eliminazione di occupati, controllo sociale, sviluppo della criminalità, crisi delle democrazie…) per cui è bene che sia controllata a ogni passo per evitare danni giganteschi all’umanità in nome della cosiddetta “modernità”.
OpenAI è una società di 750 dipendenti (ingegneri, informatici tecnici…) nata nel 2015 che ha creato Chat3 nel 2020 e ChatGPT nel 2022, un sistema di elaborazione testi addestrato a imitare il linguaggio umano (anche poesie). Il capitale investito è di 20 miliardi, di cui 13 di Microsoft che possiede il 49% delle azioni. Ancora non guadagna (ha perso anche nel 2022 540 milioni) ma è valutata 90 miliardi e nei prossimi anni guadagnerà di certo.
Dopo il licenziamento del fondatore Altman, 700 dipendenti su 750 minacciavano di andarsene anche loro in Microsoft, dove Altman era già andato nel frattempo.
Più i prodotti si fanno vendibili, più aumenta però “il profumo dei soldi” e l’impostazione etica che aveva dato lo stesso Altman è ormai andata a quel paese. Non è un caso che Microsoft (che pure ha investito 2/3 del capitale) fosse disposta ad accogliere tutto il personale nella propria azienda, a costo di perdere i 13 miliardi investiti, che, per Microsoft, sono un’inezia rispetto alle potenzialità di guadagno future.
Le grandi multinazionali riescono a impedire ai nuovi piccoli operatori di entrare nel loro mercato acquistando le aziende concorrenti o minacciandole («se non sei disponibile a essere acquistato – anche a buon prezzo – ti creo un temibile concorrente, investendo molti più soldi di quanto tu ti puoi permettere»).
È il modo con cui opera da sempre Microsoft ma anche gli altri oligopoli come Apple, Facebook, Amazon, Google che da soli rappresentano oggi il 20% del Pil USA. La concentrazione (il potere di mercato delle grandi imprese) è cresciuto dal 1980 a oggi negli Stati Uniti in più di 3⁄4 dei settori economici. Facebook ha comprato di recente WhatsApp e Instagram, Amazon Whole Foods, Exxon si è fusa con Mobil (mentre in passato si era smembrata Standard Oil), Google e Microsoft hanno acquistato dozzine di start-up potenziali loro rivali.
È il nuovo “mercato” oligopolistico che ha da tempo abbandonato quella “concorrenza perfetta” di cui si parla ormai solo nei libri di macroeconomia. Lo diceva già nel 1776 il fondatore dell’economia stessa Adam Smith nel suo libro cult La ricchezza delle nazioni: «È difficile che persone dello stesso mestiere si incontrino, sia pure per far festa e per divertirsi, senza che la conversazione finisca in una cospirazione contro lo Stato o in qualche espediente per elevare i prezzi». Smith aveva quindi ben presente come «l’unione degli uomini d’affari, anche in piccoli gruppi, potesse nuocere al bene comune» (sue parole). Non stupisce quindi che il giudice della Corte Suprema Usa Louis Brandeis abbia dichiarato «possiamo avere la democrazia o possiamo avere la ricchezza concentrata in poche mani, ma non possiamo avere entrambe le cose».
Riccardo Luna su La Stampa scrive: «Nessuna innovazione ha causato l’estinzione dell’umanità, nonostante ogni volta ci siano stati allarmi diffusi, ma tutte hanno portato un benessere sempre più diffuso… dalla stampa all’elettricità, ai treni, alle auto». Riccardo Luna fa parte dei numerosi “tecnottimisti” che popolano i nostri media e hanno studiato poco la storia, diversamente dagli stessi inventori dell’Intelligenza Artificiale (molto preoccupati come Geoffrey Hinton, il suo fondatore) e da una moltitudine di seri studiosi; citiamo per tutti Daron Acemoğlu, un economista non certo anti-sistema, che ha spiegato in modo dettagliato in Potere e progresso (ora anche in italiano) come quasi mai le innovazioni abbiano prodotto prosperità diffusa.
Dipende infatti da come viene guidata e applicata l’innovazione tecnologica. Le cose andarono molto bene dal 1946 al 1973, ma non altrettanto successe dal 1730 al 1840 in Inghilterra e in Europa o in Usa dal 1870 al 1910, o in tutto l’Occidente dal 1980 a oggi. Se infatti ci sono contro poteri (sindacati, associazioni) e se c’è una politica che guida e una regolamentazione delle imprese stesse, allora la tecnica si può tradurre in una prosperità diffusa, viceversa favorisce quei pochi che le inventano.
Da questo dipende se, come nei trente glorieuses (periodo di grande crescita economica della storia della Francia che va all’incirca dal 1945 al 1975), ci sarà una crescita dei salari di tutti, un aumento dell’eguaglianza, la creazione di macchine utili al lavoro e alla qualità della vita per tutti oppure un uso distopico per tagliare occupati e costi, aumentare i profitti per pochi e nessun vantaggio reale per noi clienti.
È questo che è in discussione, perché negli ultimi 40 anni l’intero Occidente ha abbandonato sani principi di sviluppo che coinvolgevano tutti e ha abbracciato le teorie di Milton Friedman per cui «non esistono gli extra profitti» (come ha detto Marina Berlusconi a Giorgia Meloni), ma solo i profitti (che devono essere possibilmente massimi) realizzati da oligopoli (Mediaset è uno di questi), con una crescita che vada a favore di una ristretta élite e che impoverisce tutti gli altri, creando, peraltro, un crescente disastro contro la natura.
C’è invece grande preoccupazione che l’Intelligenza Artificiale sia usata per una ulteriore forma di automazione che riduca il lavoro anche tramite un maggior controllo sociale (come fa Amazon coi suoi dipendenti) per aumentare la produzione per addetto del lavoro intellettuale ma facendo a meno di lavoratori.
Un approccio che, come avvenuto dagli anni ’80 a oggi col lavoro manuale, ha ridotto la produttività marginale dei lavoratori che sono stati privati di formazione e nuove mansioni, come pure sarebbe stato possibile con tali innovazioni tecnologiche a vantaggio di tutti: clienti serviti meglio, lavoratori meglio pagati e con più mansioni qualificate e robot e AI utili a disposizione, ma con meno profitti per le multinazionali.
Nella storia, a parte qualche breve parentesi come quella dei 30 anni del dopoguerra, nella maggioranza dei casi le innovazioni tecniche e digitali sono state usate in modo liberistico per peggiorare le condizioni della grande maggioranza della popolazione.
Un progetto non di sviluppo umano, ma paranoico, che narra di basarsi sui “mercati” (in realtà oligopoli), che tassa il lavoro 5 volte più del capitale (25% l’aliquota media in Usa sui lavoratori e 5% sul capitale oggi), che ha già mostrato negli ultimi 40 anni di peggiorare la vita della maggioranza degli occidentali per favorire una ristretta élite e che nulla ha a che vedere con lo sviluppo umano e che ora si vuole estendere a tutte le civiltà nel mondo tramite la globalizzazione.
L’Intelligenza Artificiale è la «terza utopia dell’era digitale» scrive Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera. Se non verrà guidata dalla Politica e negoziata da contro poteri (sindacati, associazioni…), porterà a un ulteriore peggioramento per tutti noi. Non si tratta di essere contro le innovazioni tecniche. Proprio perché possono produrre prosperità diffusa, occorre usarle a vantaggio di tutti (o di molti) e non di pochi (come del resto si fa anche con la scienza). Ma anche Altman ha cambiato idea sentendo forte il “profumo dei soldi”. È molto difficile pensare che la regolamentazione sia fatta da imprese business come Microsoft.
Andrea Gandini
economista, già docente di economia aziendale, università di Ferrara, con la quale collabora per la transizione al lavoro dei laureandi, componente la redazione di madrugada, si occupa di scultura e giochi di legno per bambini e adulti
Andrea Gandini
economista, già docente di economia aziendale, università di Ferrara, con la quale collabora per la transizione al lavoro dei laureandi, componente la redazione di madrugada, si occupa di scultura e giochi di legno per bambini e adulti