Non ho paura di niente

di Realdi Giovanni

«Io non ho nessuna paura. Io non ho paura di niente e poi se ho delle paure non le voglio dire, le voglio tenere per me stessa».
Chiudere le paure a chiave fuori dal cuore.
Buttar via la chiave. E poi far finta di nulla, ma guardando ogni tanto di lato, per vedere se qualche persona abbia colto questo gesto di sfida. O richiesta d’aiuto. Le parole di questa bimba sono troppo adolescenziali per non aprire qualche interrogativo. Da dove nascono? Dove porteranno? Che cosa le ha generate? Che cosa ancora nutre questa convinzione? L’adolescenza è il periodo dello scetticismo, del gioco di ragazzi testardi che dicono no di fronte a un sì e viceversa. E se la domanda riguardava l’aver paura, ecco che questa bimba anticipa la contestazione dei suoi prossimi dodici-tredici anni, denunciando la propria estraneità alle paure.
E allora può essere interessante metter le sue parole a confronto con chi sta attraversando l’adolescenza e anzi, dal suo bordo superiore, può guardarsi indietro per raccontare che cosa significhi crescere. Non una critica a questa bambina-guerriera, quanto un confronto con qualche elemento di realtà – quella porzione di essere che l’adolescente non percorre con facilità – ma quando lo fa, illumina l’adulto.

Il sabato della vita

Crescita come consapevolezza
Per alcune persone, la consapevolezza di stare nel mondo, di essere vivi e pensanti, la capacità di riflessione profonda e di critica arrivano già durante l’infanzia – e non si tratta di essere più o meno intelligenti, bensì di sensibilità. L’adolescenza, quando arriva, costituisce un ulteriore gradino: ogni sensazione è vissuta in modo amplificato e diverso, e il fulcro sta proprio nella costruzione dei mezzi per elaborare queste percezioni. Si aprono nuove porte, nuovi sentimenti o emozioni già vissute sono sentite ora più forti che mai: dall’amore alla tristezza più profonda, alla rabbia più accesa. E questo cambiamento così improvviso non può che essere traumatico ma è così necessario – come quando il neonato respira per la prima volta utilizzando i suoi polmoni: urla dal dolore, ma si è appena creata una nuova vita.
La crescita vissuta in gioventù porta a una luce in fondo al tunnel: le voci nella testa si placano.
Esse non si zittiscono, ma si ordinano, anche se d’ora in poi per tutta la vita si vivranno momenti adolescenziali di crisi, in cui i pensieri torneranno a essere un groviglio di sentieri. La differenza sta nel fatto che durante l’adolescenza questo processo è logorante, è un costante mettersi in dubbio, spesso doloroso e senza punti fissi.
La consapevolezza propria della crescita prevede un emergere prorompente del passato, un’incapacità nel gestire il presente e una vertiginosa paura del futuro, spesso senza alcuna causa scatenante esterna. Nel caso in cui si vivano eventi fortemente traumatici in questo periodo così delicato della vita, sembra quasi che formino cicatrici ben visibili.
In qualche modo il dolore sembra faccia crescere più velocemente. È un sentimento agrodolce, e a posteriori ci si chiede: «Come sarei ora se non avessi sofferto così tanto? Tornerei veramente indietro per evitarlo?».
In un periodo di crescita spesso doloroso, scomodo, difficile e amaro è proprio quella sofferenza che alla fine plasma chi siamo.

Imparare a conoscersi
Questo è il momento della consapevolezza e costruzione del proprio mondo interiore, e ciò genera sicuramente crisi, confusione. Ed ecco che il giovane è perennemente percepito come fragile, incerto, nell’età dell’emulazione costante di modelli negativi.
Sono necessari pazienza e rispetto nel comprendere che il cercare sé stessi è un processo estremamente delicato e che un atteggiamento negativo e giudicante non sarà altro che nocivo.
Certo, bisogna riconoscere che i ragazzi spesso tendono a omologarsi a un determinato gruppo, a cercare il senso di appartenenza, talvolta l’etichetta: è infatti più facile unirsi a un’identità già esistente piuttosto che creare la propria. Ma ciò non significa che i giovani debbano essere condannati, ritenuti ingenui o smidollati a causa di ciò: è necessaria una certa empatia, una certa sensibilità nei confronti di atteggiamenti che potrebbero essere campanelli d’allarme o vere e proprie richieste d’aiuto. Come ad esempio la mentalità del «si è giovani una volta sola», del «carpe diem», la quale può portare a comportamenti al limite e situazioni pericolose: non ci si può limitare ad additare come ingenui i soggetti coinvolti, ma piuttosto si deve cercare di capirne i motivi profondi. Si può dire che durante la crescita personale in gioventù non si cerchi in maniera attiva di capire chi si è, bensì si provi a uscire dal caos che giunge all’improvviso nella vita: si cerca di sbrogliare la matassa nella propria mente e nel proprio cuore, e la definizione del proprio essere ne risulta di conseguenza.

È troppo presto per un dolore così grande?
L’adolescenza sembra essere “l’età del dolore”, dei complessi, del cattivo umore. Sicuramente la sofferenza caratterizza tutto il percorso di vita di ogni persona, ma in questo tempo si impara a gestirla da soli. Si tratta infatti di un dolore che per la prima volta viene da dentro di sé e non dall’esterno: è un male diverso da quando ci si sbuccia le ginocchia o qualcuno ci sottrae un giocattolo, o quando il nonno “vola in cielo”.
Si tratta di una vera e propria crisi esistenziale che sarà presente tutta la vita, ma che si imparerà a gestire. È forse proprio a causa di un dolore talvolta troppo grande da controllare che molti giovani vivono situazioni estreme: dall’autolesionismo ai disturbi alimentari, ai pensieri suicidi, all’abuso di sostanze. Tutti fenomeni non prettamente legati alla gioventù, ma che spesso iniziano a emergere durante questi anni. Una vera e propria autodistruzione, in un periodo che per molti può essere totalmente buio.

Forestieri della vita
Per il mondo adulto i giovani sembrano essere tutti uguali, una “massa” per la quale non si nutre alcuna speranza oppure, in maniera opposta, alla quale si addossa completamente la responsabilità del futuro, come per la crisi climatica.
In realtà, un ragazzo non si sente “massa”, “gruppo”, piuttosto un vero e proprio “forestiere della vita” pirandelliano: sembra di sentire e vedere cose che nessuno percepisce, vivendo in una situazione di straniamento, in una società che «non mi capisce».
È come se si vedesse il mondo per la prima volta in una sorta di “insight”, e tutto appare così ingiusto e ci si chiede perché nessuno faccia qualcosa per cambiare questo mondo corrotto, marcio.
È proprio la miccia di quell’impeto adolescenziale che una volta accesa dovrebbe farci esplodere di vita, e non finire spenta dall’umidità di convenzioni e abitudini: quell’irrazionalità giovanile dovrebbe essere sempre conservata in un cassetto del nostro essere.

Un futuro negato?
Per i ragazzi, vi è la sensazione di essere costretti in un futuro già tracciato, un futuro negato. È data un’apparente libertà: si può fare ciò che più si vuole nella vita, ma come si possono comprendere i propri reali e più profondi desideri, le proprie aspirazioni in una società perennemente vincolata e permeata da uno stile di vita capitalistico, in cui le parole chiave sono velocità, utilità e denaro? Non ci sente pronti a impugnare la penna per scrivere il proprio futuro. Non ci si sente pronti a vincolarsi quando si vorrebbe fare tutto, essere chiunque, attingere a ogni ambito della vita. Forse, nella vertigine del pensare al tempo che scorre inesorabile, bisognerebbe imparare a respirare, ascoltare Billy Joel in “Vienna”: «Rallenta, ragazzo folle. Sei così ambizioso per essere un giovane.
Ma se sei così intelligente, dimmi, perché hai ancora così tanta paura?».
Bisognerebbe dare l’indiscussa priorità al capire chi si vuole essere nella propria vita, piuttosto che al cosa si vuole fare. Forse solo così potremo tornare a respirare, a far sì che questo momento sia veramente quel “sabato della vita” di cui parlava Leopardi.

Francesca Maggini, ha frequentato il Liceo Galilei di Selvazzano Dentro (PD)

Chi sarai dopo?

Chi sei?
Il tema della paura, visto dalla condizione in cui mi trovo, richiama quello dell’identità. Sono sul bordo estremo della scuola superiore e porto con me il peso e la leggerezza dell’adolescenza che s’invola, di quel periodo dove la trasformazione impelle e ha come meta la completa maturazione del sé. Non si tratta della determinazione di un’identità estrinseca – quella che concerne ad esempio i nostri dati anagrafici – quanto piuttosto di un sentimento di pulsioni interne che anelano a una piena espressione. Per questo la domanda più ricorrente che mi viene posta in questo periodo, ovvero «Cosa farai dopo?», rimbomba in me come un «Chi sei?» che fa tremendamente paura. Indagare chi si è, credo significhi indagare i propri limiti e quindi tutto ciò che dentro il recinto s’agita: le proprie possibilità, le proprie specificità.

Edipo e Narciso
Il concetto di limite viene affrontato, nella sua versione sociale, nella tarda produzione freudiana ed è inteso come riflesso dell’interiorizzazione dei vincoli imposti dall’autorità paterna. Il complesso edipico, per il quale esiste un limite ai nostri desideri inconsci, si può cioè trasporre a un livello comunitario e, in questo, la legge ne sarebbe testimone. Tuttavia, i limiti che la storia pone innanzi all’uomo, e all’adolescente colmo di passioni in particolare, non hanno tutti la stessa natura; esiste infatti, a oggi, un diverso rapporto con il limite rispetto al passato. Prendendo in prestito il pensiero di Galimberti, se all’epoca di Freud questi limiti erano essenzialmente divieti materializzati nella «società della disciplina», più vicina a noi è invece l’idea di un confine personale determinato dalle nostre capacità: un’asticella da superare in Fosbury, tipica della «società dell’efficienza».
Un tempo quindi un valicamento dei rigidi sistemi novecenteschi si traduceva in senso di colpa, oggi un mancato raggiungimento di determinati standard trova piuttosto sfogo nel senso di vergogna. Edipo non basta più, serve guardare alla figura di Narciso. Lo sguardo dell’eroe si sposta e dal timore dell’autorità genitoriale si passa all’ambigua angoscia di fronte al proprio riflesso.
Ecco che allora, delineato questo quadro, si comprendono meglio anche le prove a cui molti ragazzi e ragazze sottopongono le proprie capacità, le stesse prove che sembrerebbero rivelazione di estremo coraggio. «Io non ho paura di niente» è la frase di chi cerca di non guardarsi allo specchio o non ne ha mai avuto occasione.
L’estenuante corsa all’eccellenza, al merito, è l’altra faccia di una stessa medaglia che vede l’effigie di sfide al limite, dove la vita stessa è messa a repentaglio. E non è semplicemente un’ingenua sottostima delle proprie azioni, ma un’intima ricerca continua di consenso. Scrive il rapper Anastasio, nella canzone “Adolescente”: «innamorato di me stesso, ma non mi ricambiavo, ed ero sofferente spesso». Più che una fiera corsa verso una precisa meta, si tratta di movimenti convulsi che non trovano vera organicità.

Telemaco
Ed eccomi di nuovo qui, al punto di partenza, con l’incessante brusio di sottofondo che accompagna la penna e sembra continuare a chiedermi: «Cosa farai dopo? Chi sei?».
La bussola impazzisce, nel mondo non c’è più un nord polare. Non solo mi sento un Narciso, ma anche Telemaco: senza un metafisico padre, in attesa di un ritorno di direzione. E quello che ci abita non è, come si potrebbe pensare, un passatismo che attende una direzione proposta da un padre-padrone, fantasma del Novecento, ma l’attesa di padre-testimone che, proprio come Ulisse, giunga nelle umili vesti di un migrante.
Ma intanto, lo sguardo naufraga in mare, attendendo.
Appare evidente quindi che la spregiudicata sfida dei limiti vada considerata unitamente alla fragilità esistenziale che nasconde, al rachitico scheletro che la sorregge. Ancora una volta sono due facce di una stessa medaglia: sfida e ambizione, la testa; disorientamento e paura di fallire, la croce della mia generazione. Ricercare i propri limiti e recidere il cordone ombelicale non vuol dire propriamente raggiungere la capacità di “tenerci su” da soli. Piuttosto, andrebbe intesa come la maschera per nascondere la propria angoscia.
La spavalderia, in fin dei conti, non è che fragilità truccata male.

Davide Romanello, ha frequentato il Liceo Galilei di Selvazzano D. (PD)

Giovanni Realdi

insegnante di storia e filosofia.
liceo scientifico statale “G. Galilei” Selvazzano Dentro (PD).
componente la redazione di madrugada