Nell’imperfezione c’è posto per tutti
«Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità».
[E. Montale, I limoni, Ossi di seppia]
Quello dell’imperfezione è un tema generativo, liberatorio, suggestivo e affascinante, che ha ispirato l’arte in modo profondo e ha trovato nei secoli occasioni di sperimentazione, approfondimenti, provocazioni autentiche e soluzioni artistiche spesso inedite, comunque universali, perché questo è un tema esistenziale che trova le sue radici nella condizione umana e nella nostra incessante ricerca di significato e comprensione.
Lo sapevano anche gli artisti classici che hanno fatto, invece, del mito dell’armonia, della proporzione tra le parti, dell’equilibrio, della composizione perfetta, il motivo primo e ultimo della loro ricerca estetica e ispirazione, rispondendo in modo sublime e sublimante alla coscienza e alla presa d’atto di una condizione dell’esistere e dell’umano limitata, precaria, “mancante”, anelante, incompiuta. Gli umani pieni di difetti, dalle poche e discutibili virtù, hanno preso la forma degli dei, un parto artistico virtuoso e di canonica composizione, ma una volta create queste divinità sono state messe fuori dalla storia, dai luoghi dell’abitare, dai confini dei regni e posti nell’Olimpo, il luogo perfetto, il non luogo per eccellenza, lì dove volano, emigrano o si rifugiano il desiderio e il sogno, spazio infinito a misura di perfezione.
Gli artisti classici erano pienamente coscienti di come in realtà era il mondo e tentavano di trasformare quel che era terreno, caduco, corruttibile e particolare, nella forma perfetta, per poter contemplare l’idea senza tempo, senza difetto e trovare consolazione nella bellezza somma.
Ci restano templi, statue, veneri, atleti fissati nel movimento del lancio del giavellotto, ninfe, icone di una classicità che anche l’arte contemporanea continua a interrogare, a studiare, a storpiare, in una rivisitazione di questo lontano mito della perfezione in chiave enigmatica, inquietante, provocatoria, al massimo evocativa o nostalgica.
Il pensiero dell’imperfezione ha pervaso, e ancora interroga, la ricerca moderna e contemporanea. In letteratura e arte si esprime attraverso la rappresentazione e predilezione di personaggi imperfetti, che vivono in un tempo-spazio spesso confuso, relativo, multiverso, che permettono di esplorare la gamma completa delle emozioni e delle esperienze umane, dalle più nobili alle più viscerali. Progressivamente i personaggi si sono smarcati da ideali di sé stereotipati e convenzionali, dal tutto o niente, dal gioco della parte, per s-velare l’intima e complessa vulnerabilità, l’inevitabile personale fragilità e, nel qual tempo, il diritto alla libertà di essere sé stessi, sfidando convenzioni sociali e tradizionali, ruoli e aspettative pressanti. Ci hanno provato anche le donne… magari lasciando ancora firmare agli uomini molte delle loro opere! L’imperfezione diventa così uno specchio attraverso cui prendere onestamente atto della propria vita e delle proprie scelte, rendendo la lettura un’esperienza sempre più intima e personale.
La poetica dell’oggetto trovato a caso
Nell’arte l’imperfezione si spinge fino alla poetica dell’objet trouvé, l’oggetto trovato a caso, in una valigia abbandonata, sulla spiaggia, tra i rifiuti, oggetto povero e dimenticato, ma che può diventare anche salvifico come l’anello “che non tiene” di Montale, una breccia sul muro dalla quale poter intravvedere un “oltre” che può dare nuovi significati e possibilità nuove alla vita. L’oggetto d’arte non attinge più alla perfezione, non rispetta più il canone vitruviano ma è spesso un rottame carico di storia, oggetti a “reazione poetica” come li chiama Le Courbusier.
Nel mondo contemporaneo della ricerca del bello i “rottami” possono diventare provocatoriamente arte, oggetti ad alta intensità semantica, mentre le imperfezioni, gli errori nella scienza possono diventare occasioni di scoperte e nuove intuizioni, come dichiara già Charles Darwin: «Dove c’è perfezione non succede più niente, dove c’è imperfezione, c’è promessa di cambiamento e storia».
Concetto ribadito da Rita Levi-Montalcini nel suo libro Elogio dell’imperfezione quando scrive: «Il fatto che l’attività svolta in modo così imperfetto sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito che ci siamo prefissi o ci è stato assegnato, sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione».
Il mondo dell’educazione, e a volte della cura, sembrano invece più lontani dal saper affrontare, con libertà e occasione di spunto, il tema dell’imperfezione, nel riconoscere e fare davvero proprio, nella pratica, il portato generativo che può suggerire, con la sua indicazione a procedere, con la sua necessità a includere, a sperimentare senza paura modi nuovi di accompagnare nella crescita e nella vita.
Questa difficoltà è evidente non tanto nel dibattito legato alla letteratura pedagogica ed educativa che nel tempo ha fatto i conti con l’imperfezione, elaborando metodi e strategie coerenti, quanto piuttosto nel “fare educativo”, nelle relazioni che tessono i genitori nella propria famiglia e con i propri figli, i docenti con gli alunni a scuola, gli animatori e gli allenatori con gli adolescenti nella comunità educante. Si fatica a liberarsi da stereotipi e pregiudizi che tagliano le gambe perché i principali significati attribuiti alla parola imperfezione rimangono spesso connessi a un’accezione negativa, legata sostanzialmente al suo etimo: mancato raggiungimento di un fine, mancata adesione a un modello prestabilito.
Le parole e frasi ridondanti che ancora si sentono nelle relazioni educative sono: «non sei riuscito», «hai sbagliato», «mi aspettavo meglio», «mi hai deluso», «non va bene», «ci sono molti errori», «non ci siamo»… Si alimentano, a volte senza accorgersene, anzi addirittura pensando di fare il bene dei ragazzi, esperienze di squalifica, sensazioni di inadeguatezza, e perfino sentimenti di colpa, o peggio, di vergogna. L’educazione resta ancora, in modo difensivo e poco evoluto, ancorata a pretese poco funzionali: la coerenza, la progressione, la specializzazione, la competizione, il vincere, il dimostrare, il raggiungere risultati a tutti i costi, l’essere il migliore, l’orgoglio della famiglia…
Urge cambiare sguardo e paradigma, facendo luce sulla centralità del processo e degli elementi che incalzano il cammino, piuttosto che sul punto di arrivo al modello prestabilito, al risultato (e poi di quale modello? chi lo stabilisce? quali sono i parametri? sono davvero rispettosi della vita dell’uomo, del suo progetto, delle sue relazioni?).
Percorrere nuove strade
Molto più interessante, nell’accompagnare nel cammino, è saper rispecchiare le parti belle e buone che, a volte, si intra-vedono nella storia di ognuno: la capacità di superare le avversità, riprendersi dai fallimenti, dalle cadute, da tentativi scomposti, poco utili ed efficaci, di dare senso alle esperienze che ci mettono confusione o ci danno dolore. L’imperfezione insita in ognuno, nella natura e nelle cose, se accolta e connotata positivamente, può essere una leva importante per lo sviluppo della resilienza e aiuta le persone a gestire meglio gli inevitabili ostacoli, fallimenti e… la loro unicità.
Saper accogliere l’imperfezione, la vulnerabilità e la fragilità propria e altrui richiede lavoro, confronto e riflessione. Non è una scorciatoia che ci spinge ad accontentarci, addirittura a rassegnarci, anzi, deve essere concepita come una virtù che implica la consapevolezza necessaria per correggere sé stessi, indagare sui propri errori, percorrere nuove strade e trovare nuove soluzioni.
Quest’atteggiamento è sicuramente più utile, lo ha capito la scienza, lo ha espresso l’arte, devono farlo più proprio anche l’educazione e la cura della qualità delle relazioni tra noi.
Concludo traslando una frase scritta sopra a proposito dell’objet trouvé e lo sostituisco con la parola “volto”. Nell’educazione e nella cura l’imperfezione si spinge fino alla poetica del volto, trovato a caso, vicino a una valigia abbandonata, sulla spiaggia, tra i rifiuti, volto povero e dimenticato, ma che può diventare anche salvifico.
In questo cambio di paradigma, superato il mito della perfezione… anche i “rottami”: lo straniero, il profugo, il respinto, il derelitto, l’inutile, il fallito… possono diventare, provocatoriamente, un’occasione per me!
Monica Lazzaretto
Presidente di Macondo