L’accoglienza sociale di minori è davvero possibile?
Nel 1952 ogni tanto la domenica si andava al cinema e in inverno si tornava che era già buio. Abitavamo fuori paese, in un piccolo borgo periferico raggiungibile con una lunga camminata tra fossi e campi di tenero grano. Io davanti, saltellando tra i solchi dei carri e dietro mia madre, sempre un po’ intimorita dal buio, a braccetto con mio padre. Quella domenica, nel silenzio della sera, udimmo un vociare incomprensibile. Nel fosso secco di sterpi c’era il nostro vicino ubriaco, sporco di terra e di vino che imprecava contro il mondo.
Mio padre non disse una parola e con mio stupore se lo caricò sulle spalle e lo portò fino a casa, tra le proteste di mia madre che temeva reazioni violente da parte del vecchietto.
Tornando verso casa nostra, chiesi a mio padre: perché l’hai portato a casa? Non mi rispose, ma terminata la cena mi volle vicino e trasse dal portafoglio una fotografia ingiallita con tanti bambini magri, tutti con la testa rasata e tutti vestiti con una divisa militare. Ne indicò uno e disse «questo ero io». E così scoprii che lui non era cresciuto in una casa, in una famiglia, ma in un collegio di bambini senza famiglia, il collegio Primodì che accoglieva i bambini che non avevano una famiglia o perché orfani, o per povertà o per essere “bastardini” (così a Bologna si chiamava popolarmente il collegio Primodì).
Mio padre poi cominciò a indicare i bambini vicino a lui: questo fu messo in classe differenziale perché ritenuto cretino; questo è finito in galera; questo, uscito dal collegio, ha ucciso sua madre; questo è morto partigiano (a 18 anni, senza sapere cos’era il mondo); questo è morto nella RSI (idem); questo è diventato matto; questo è Filippo che rastrellato dai tedeschi finì a Dresda, si salvò e tornò a piedi dalla Germania; questo è Bruno mio fratello che finita la guerra non fu più capace di tornare alla vita civile. Nella foto solo un bambino aveva avuto un destino “normale”: era mio padre! E gli altri? Erano caduti nel tritacarne della vita e loro che erano minori quasi adatti e incompleti hanno finito con essere esclusi o autoescludersi.
Allora i bambini senza famiglia vivevano della carità sociale, non si parlava di diritti. Erano l’ultima spiaggia dove le mele marce “naturalmente” marcivano e altro non si faceva che aspettare di vederle marcire.
Anni dopo, col manifesto del Che sulla testata del letto, fui preso dal fuoco delle parole di Don Milani. A Barbiana c’era lo scarto della società dove chi era nato contadino, chi non apparteneva a nessuno, trovava voce tra l’«I care» e il «Me ne frego». Scriveva don Milani in Scuola di Barbiana. Lettera a una professoressa. 1963: Scuola dell’obbligo. Finite le elementari avevo diritto ad altri tre anni di scuola. Anzi la Costituzione dice che avevo l’obbligo di andarci. Ma a Vicchio non c’era ancora la scuola media.
Andare a Borgo era un’impresa. Chi ci s’era provato aveva speso un monte di soldi e poi era stato respinto come un cane. Ai miei la maestra aveva detto che non spendessero soldi: «Mandatelo nel campo. Non è adatto a studiare». (pp. 10-11) Latino al Mugello. Di latino naturalmente ne sapevamo poco. La Camera l’aveva già seppellito da due anni. Proprio in quell’anno avevano smesso di pretenderlo a Cambridge e Oxford. Ma i contadini del Mugello dovevano saperlo tutto. Passavano tra i banchi i professori solenni come sacerdoti. Custodi del lucignolo spento. (p. 30) Oggi apparentemente tutto è cambiato, le leggi sono cambiate e si parla di diritti, non esistono più i collegi degli orfani e l’integrazione e il sostegno dell’infanzia è regola civile. Si parla di diritti e non di carità, ma sebbene la condizione minorile sia un problema sentito, i risultati sono ancora troppo scarsi e non può bastare dire che oggi le cose vanno meglio.
Ancora in troppi luoghi, in troppi comportamenti sociali, il senso dell’accoglienza verso i minori è moneta svalutata.
E ancora ci si chiede: l’accoglienza di minori come diritto da perseguire è davvero oggi possibile? Globalmente, sì, lo è, per leggi e per sentire sociale, tranne per qualche dettaglio non minimo di comportamento individuale e purtroppo di latenza istituzionale. Questo, bisogna ammetterlo, è dovuto alla mancanza di concentrazione plurima di interessi, di farsi carico, di intesa tra professionalità e costume sociale. Veniamo a un attuale esempio di cronaca: Periferia di piccola città. Una pattuglia di carabinieri nota nella notte una bambina sola ai margini di una strada isolata; la raccolgono e la portano al comando. La bambina ha 8 anni e racconta di essere di un paese dell’est, di essere stata adottata e che è scappata di casa perché maltrattata da una coppia formata da una giovane donna dell’est e da un anziano italiano ultra settantenne. La portano a casa e si scopre che la bambina si era allontanata già da 4 giorni e i genitori adottivi non avevano fatto alcuna segnalazione.
Mi fermo qui, c’è materia sufficiente per chiedersi come è stato possibile che una coppia così inappropriata potesse adottare una bambina e, se così fosse, come è possibile che il servizio sociale non avesse raccolto le sofferenze della bambina nelle sue visite di tutela. Un caso sicuramente più complesso di quanto riportato dai giornali e comunque sia, da qualunque punto di vista lo si voglia vedere, come è possibile che sia accaduto? So benissimo che esistono situazioni eccellenti di accoglienza; so benissimo che esistono comunità che operano coniugando la vocazione con la professionalità; so benissimo però anche che questi esempi luminosi sono poca cosa di fronte a una prassi che dal cesto di mele finisce con salvarne regolarmente poche.
Si potrebbe dire che così è sempre stato, ma torniamo alla domanda del titolo.
La risposta è complessa, sia che ci si riferisca all’adozione, sia che ci si riferisca all’affido. Per fortuna siamo ben lontani dalla condizione del collegio Primodì o di quella di Barbiana, ma il comportamento tendente a isolare chi è diverso, a ghettizzarlo, a incistarlo, si è fatto più sottile, ma è ancora grandemente presente nella società e nell’apparato burocratico.
Ancora oggi i minori senza famiglia accudente sono un numero consistente e socialmente gravano in massima parte sulle spalle del sistema sociale nazionale, erodendo una considerevole parte delle disponibilità economiche e delle risorse umane. Certo è che per quanto una istituzione possa fare, non può sostituire una famiglia accudente.
Ma nemmeno possiamo pensare di poterci accontentare di uno scarto anche piccolo. In questa materia non è pensabile accontentarsi: tutti, sì tutti, i bambini devono essere accolti in luogo e contesto educativo consoni alle loro necessità.
Ma come funziona oggi la tutela nell’ipotesi peggiore (ovvero per quelli che tuttora sono gli scarti o altrimenti riferiti come irrecuperabili)? La gran parte di questi ragazzi sono collocati di fatto in strutture comunitarie pseudo-familiari, sia per la difficoltà gestionale di un collocamento in famiglie accoglienti, sia per una sorta di fatalità di prassi, o se si vuole, di manifesta impotenza a far meglio da parte del servizio sociale (non bastano le persone, ci vogliono anche risorse e strutture di accoglienza). Di fatto vengono quindi “parcheggiati” in una qualche struttura di accoglienza in attesa che divengano maggiorenni (in genere con un percorso di 3-4 anni), e poi? Poi vengono scaricati dal servizio minorile ed entrano in carico nel servizio adulti.
Magra consolazione, dato che li aspetta, solitamente, un lungo periodo di assistenza diretta o comunque di tutela dalla quale si affrancano raramente per una raggiunta autonomia e più frequentemente per un processo di marginalità sociale legato a maternità non volute o a collocazioni sociali di confine di quasi adatti. Questi ragazzi avrebbero ancora bisogno di un lungo periodo di tutorato, ma di fatto il servizio sociale riesce a fare solo quello che può.
Reale impotenza? Limiti strutturali? Complessità sociale? Limiti di spesa? O strategia della sopravvivenza del servizio stesso? Non sono pochi i casi in cui, ad esempio, una minorenne dapprima è seguita dal servizio sociale minori, poi è seguita dal servizio sociale adulti, poi continua a essere seguita dal servizio minori perché è divenuta madre inaccudente. Questo esempio, e ve ne sono altri, sottolinea soprattutto l’inefficienza nella pratica del sistema, lo scaricare il caso ad altro servizio e la sostanziale assenza di presa in carico del caso (si intende non in senso burocratico, ma in senso socio-esistenziale).
Di fatto abbiamo un settore sociale di grande rilevanza per il futuro del paese che vive (specie in alcune regioni) in gran parte parassiticamente, con interventi di facciata, di grandi proclami e di fragile quotidianità. Quanto dico va a colpire un settore debole, che tuttavia non manca anche di eccellenze pubbliche e private, spesso più per merito di poche persone motivate che per sostegno da parte delle amministrazioni socio-politiche (lavorare per il futuro politicamente non rende). Ma se come cittadini o come operatori abbiamo perso la capacità di indignarci e di lottare anche per l’ultimo dei minori, come faremo a dirci cittadini responsabili?
Alessandro Bruni
componente della redazione di madrugada e curatore del blog madrugada.blogs.com