La nostra amica nemica paura

di Buccoliero Elena

La paura è una delle emozioni fondamentali degli esseri umani, come tale non possiamo disfarcene.
Tra le nostre componenti costitutive, la paura c’è; ma come la viviamo? Ci protegge, ci spinge al riparo. Eppure, secondo una certa visione, è qualcosa di cui vergognarci. La persona veramente adulta, risolta si potrebbe dire, è quella che non si lascia turbare. La persona matura sa consolarsi da sé, razionalizza, semmai, e gli uomini più delle donne per antica (oppressiva) pretesa culturale.
Non ci si aspetta che si nascondano i bambini, che difatti sono più liberi di provare emozioni.
Possono confessare la paura e viverla in quel loro modo di essere interi, di lasciarsi pervadere a ogni livello, piangere e chiedere aiuto, abbracciare un genitore un amico un pupazzo, farsi consolare.
Privilegio dell’infanzia, si direbbe, la licenza di essere fragili senza sentirsi in difetto. Sarà per questo che, nella collaborazione della nostra redazione con l’insegnante di scuola primaria Renata Cavallari, è nato il desiderio di lanciare il tema e stimolare i pensieri dei suoi alunni.
Le paure di cui i bambini parlano, le conosciamo benissimo. Appartengono anche alla nostra infanzia, inossidabili a dispetto di tante supposizioni sulle mutazioni generazionali legate ad esempio al web e ad altri aggeggi; per qualcuno di noi, o sotto alcuni aspetti, quelle paure ci seguono ancora.
Spaventano il buio, i ladri, gli insetti, i mostri, gli animali sconosciuti. La prospettiva di cambiare e quella di soffrire e di morire, o assistere alla sofferenza e alla morte di una persona cara.
Ma poi spaventano la novità, gli estranei, l’essere sottoposti a giudizio, la non accettazione degli altri e molte altre incompiutezze ancora, così mature – o, forse, così persistenti nella crescita – da volerci illudere che i bambini ne siano preservati per sorprenderci qui, ritrovandole espresse con consapevolezza e a un’età tanto precoce.
Alcune di queste paure sono radicate e ci accompagnano ogni giorno, benché siamo meno disposti a riconoscerle. Abbiamo costruito nel tempo le maschere migliori, le reazioni più funzionali, ognuno le sue. Siano razionalizzazione, o fatalismo, o complottismo, o altro ancora. Così ci stringiamo nel vestito buono, lo tessiamo da una vita proprio per andare incontro agli altri.
Difficilmente piangiamo dallo spavento quando siamo in pubblico, ma nel profondo non lo abbiamo dimenticato e in parte lo coviamo ancora. Ci diciamo che non siamo noi i fifoni, ma gli altri, “l’altro”, a essere un mostro.
Il timore del cambiamento, della novità, di una violenza che ci attraversa e non ci guarda, come il cattivo auspicio di una catastrofe naturale o provocata, oppure il sospetto che qualcuno arrivi da lontano a impadronirsi delle nostre poche certezze, non restano delimitati all’età infantile.
Sono base di tanta cattiva comunicazione, di tanta cattiva politica. Gli imprenditori della paura sono tra noi, parlano a noi grandi, che per quanto siamo maturi e risolti (risolti?) ci lasciamo infinocchiare oltre ogni ragionevolezza. Chi più chi meno e non tutti sugli stessi tasti, ma è raro che quella paura – o la reazione che provoca – ci proteggano realmente da un pericolo vero o presunto.
In questo numero di madrugada abbiamo provato, allora, a fare un esperimento. Abbiamo suddiviso in categorie le paure dei bambini, ci siamo spartiti i biglietti che le raccontavano e abbiamo fatto l’azzardo di metterci in rapporto con le sfumature di questa emozione ingombrante.
Ci siamo cimentati nella scrittura muovendo da differenti età e da condizioni e storie personali molto diverse. Ognuno lo ha fatto a modo proprio: chi con l’obiettivo di risolvere o di contenere o di consigliare, parlando magari agli adulti che dei bambini si prendono cura; chi attraverso il diaframma della letteratura o della poesia; chi, ancora, ponendosi al fianco dei più piccoli e riconoscendo in sé stesso quella particolare emozione, nell’attualità o, a volte, rimasta impigliata in qualche episodio infantile.
Non c’è, in questo, una chiave giusta o sbagliata. Le chiavi interpretative che abbiamo scelto illuminano diversamente il tema e al contempo – necessariamente – dicono di noi, della nostra dimestichezza con le emozioni più roventi. Dicono, anche, delle difese che qualche volta ci sono necessarie per non scottarci.
È difficile stare accanto alla paura di un bambino. Viene fatto di minimizzarla, di ridicolizzarla con affetto. Scatta l’ansia di risolverla dimostrando che non c’è da spaventarsi perché il buio non è abitato, i mostri non esistono e contro i ladri, è noto, possiamo installare un antifurto o chiamare Certo, fa male la paura di un bambino ma non è sempre detto che scacciarla sia l’unica cosa da fare. Qualche volta possiamo tentare lo sforzo difficilissimo di semplicemente esserci. Restare.
Quando è il caso, ammettere la difficoltà. Riconoscere che la malattia fa paura, come la morte, come il distacco, e non c’è da vergognarsi per questo.
Poi dire che anche quella paura – che, noi ormai sappiamo, davvero non ha fondo o logica o spiegazione umana – forse, forse e un poco, si può diluire stando insieme.

Elena Buccoliero

sociologa, componente la redazione di madrugada