I bambini e la morte
Non avevo nemmeno 5 anni quando mio nonno mi volle con sé a trovare la sua mamma al cimitero. Quando arrivammo trasse di tasca un coltellino minuscolo e si mise a tagliare l’erba sulla tomba. Un gesto inutile data l’abbondanza di erba che contornava un pilastrino con un numero. Della bisnonna e della morte di altri parenti sapevo poco, se non di persone di cui sentivo la loro assenza avvolta nel mito delle parole che in famiglia si usavano per ricordarli. Pensieri vaghi, ma incisi nella mia memoria che increspavano di mistero la morte di persone sconosciute, ma che sentivo che mi appartenevano.
Quando accade che in famiglia si verifica un lutto, il modo in cui un bambino elabora l’esperienza dipende da diversi fattori, alcuni soggettivi, come la sua personalità o il legame affettivo che lo lega alla persona morta, altri oggettivi e che riguardano la fascia di età a cui appartiene e il contesto familiare in cui vive. Schematicamente, sappiamo che il bambino vive la morte in tappe cronologiche significative, tra loro distinte:
- fino ai 3 anni i bambini non comprendono il concetto di morte, ma vivono comunque uno stato di confusione dettato dall’agitazione e dalla tristezza che percepiscono attorno a loro;
- dai 3 ai 6 anni i bambini vivono la morte come evento temporaneo e pensano che la persona morta prima o poi tornerà. In questa fase però sono in grado di rivolgere domande sulla morte;
- da 6 a 8 anni la morte diventa un’esperienza più reale e definitiva, i bambini dimostrano interesse verso i rituali come il funerale e la sepoltura, ma non sono in grado di incanalare correttamente le loro emozioni;
- da 8 a 11 anni la morte è interpretata come interruzione delle funzioni vitali, ma ancora non sanno interpretare ciò che sentono e lo manifestano attraverso atteggiamenti regressivi e aggressivi;
- dopo gli 11 anni l’elaborazione del lutto è più matura e consapevole, restano tuttavia i problemi legati alla gestione delle emozioni.
Nel bambino è l’istinto della sopravvivenza a suscitare il profondo rifiuto della morte che inevitabilmente ci accompagna sin dal primo istante di vita. Tuttavia, dobbiamo distinguere tra la paura “inconscia”, più camuffata e nascosta tipica dei primi anni di vita, e il sovrapporsi a questa dell’angoscia “cosciente”, consapevole, che possono esprimere con le parole andando verso l’adolescenza.
La paura inconscia della morte/assenza può addirittura essersi generata nella vita intrauterina, se la madre ha vissuto eventi di alta drammaticità durante la gestazione. Solitamente questa paura è uno stato di prostrazione generale che il bambino subisce perché non ha gli strumenti per capire, ma che non deve essere taciuto ponendo il bimbo in un limbo conoscitivo nell’illusione di non farlo soffrire.
Sappiamo che il bambino nei primi anni di vita percepisce la realtà con segnali di predizione inconsci, che hanno la funzione di tenere sotto controllo le variabili fisiologiche necessarie alla sua sopravvivenza: piange quando ha fame, sorride quando vuole attenzioni, attira l’attenzione degli adulti accudenti ai quali si lega sempre più esclusivamente. In lui non esiste il pensiero della morte né propria né delle persone di riferimento, avverte soprattutto la loro presenza o la loro assenza.
Le parole dei bambini che a scuola esprimono le loro paure sono chiare: io ho paura che i miei familiari muoiano, ho paura dei ladri che entrino e che mi sparino, quando sono in un posto stretto e basso penso subito che morirò, ho paura del buio perché mi immagino i morti, la mia paura più grande è quella di restare senza mio fratello e i miei genitori per sempre.
Sono paure che affondano nel reale, ma che hanno una origine che lentamente si disvela e che il bambino cerca di organizzare ed esprimere per dare una personale concretezza al mistero della morte.
Solo successivamente, con la nascita della coscienza di individuo autonomo, il bambino riesce a verbalizzare affetti evoluti e denunce di sofferenze. È in questa fase che nasce il senso della morte che accompagna l’uomo nella sua vita adulta e nella sua ineluttabilità dolorosa. Ma è anche il momento in cui l’adulto pone in atto l’anestetizzazione della morte confinandola in un limbo di incoscienza confortante. Un processo “narcotico” che si attenuerà solo con la terza età, nel divenire della terminalità.
Affrontare la morte è difficile per i bambini poiché provano sentimenti molto intensi e non progressivi e trattenere le emozioni per loro è complicato, perché non hanno ancora elaborato gli strumenti per esprimere un senso di sé autonomo e indipendente dalla protezione del genitore. La cosa migliore sarebbe far trapelare il proprio dolore ai figli, perché questo li autorizza a fare lo stesso: piangere non è segno di fragilità, quanto il sintomo di qualcosa che ci ha reso tristi e che può legittimare anche i bambini a fare lo stesso.
La perdita di un genitore in tenera età assume le caratteristiche di un vero e proprio trauma e può comportare la perdita della propria sicurezza.
Questo aspetto si colloca perlopiù in una dimensione inconscia, dove non c’è nessuna consapevolezza di quanto traumatica sia la separazione.
Naturalmente ogni situazione va valutata nella sua unicità, tenendo presente la complessità dell’evento traumatico per il bambino quali: l’età del minore, la profondità del legame con il genitore deceduto, le risorse affettive e relazionali di cui il bambino dispone nel suo ambiente di riferimento.
Certo è che segnali di malessere espressi dai bambini verso terzi (scuola) sono indici di una necessità di intervento psicologico e non vanno sottovalutati. Sappiamo che non esiste un modo univoco e universalmente valido per trattare il tema della morte con i bambini, ma esiste piuttosto un canale comunicativo specifico per ciascuna famiglia, che solo chi ne fa parte conosce nel profondo e che va costruita passo dopo passo, attraverso un percorso che segua i tempi di elaborazione del bambino con pazienza e affetto.
Alessandro Bruni
componente della redazione di madrugada e curatore del blog madrugada.blogs.com