Gabon

di Cecilia Alfier

«Le nuove religioni, l’Islam e il Cristianesimo, rimangono in superficie. Dentro, abbiamo sempre la foresta» ebbe a dire Guy Rossatanga-Rignault (classe 1963), professore gabonese di diritto pubblico, specialista in sociologia politica, già preside di facoltà all’università del Gabon. Mai frase fu più azzeccata per riassumere l’anima di un paese.
Il Gabon ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia il 17 agosto 1960; è uno Stato dalla superficie più o meo equivalente a quella della Gran Bretagna (ma solamente due milioni di abitanti) affacciato sull’oceano Atlantico, Africa Centrale, appena sotto alla Guinea Equatoriale. Questa densità di popolazione molto bassa permette alla foresta di “invadere” gran parte del territorio: la foresta è il cuore pulsante del Paese e allo stesso tempo è gravemente minacciata.
Anche per questo, il Gabon sembra il simbolo dell’ingiustizia e del paradosso socioeconomico che attraversa l’Africa: il suo PIL annuo è fra i più alti del continente, il bacino del Congo è uno dei territori dove vi è la maggiore esportazione di legno mondiale. Ne consegue che il Gabon e la Repubblica del Congo da soli commerciano l’80% del legname africano. Eppure, la maggioranza della popolazione del Gabon vive sotto la soglia di povertà. Questo perché l’abbondanza di risorse naturali non porta automaticamente a istituzioni più democratiche e inclusive, che aiuterebbero a ridistribuire la ricchezza. Come in molti paesi del continente, la situazione è frutto di due ordini di problemi: “esterni” e “interni”. I cinesi, per esempio, controllano una gran parte delle foreste del bacino del Congo, un controllo che loro riescono ad avere aggirando e non rispettando regole contro il disboscamento, che invece in Unione Europea sono molto stringenti.
Tuttavia, in Gabon vi è anche un problema di istituzioni politiche, che impediscono al Paese di opporsi alle prepotenze delle potenze straniere. Nulla si riesce a cambiare con le elezioni politiche. Prova ne sia che l’attuale presidente, Brice Clotaire Oligui Nguema, ha ottenuto il suo incarico ad interim a seguito di un colpo di Stato nell’agosto dello scorso anno, nonostante la riforma della Costituzione degli anni Novanta preveda un sistema multipartitico e un sistema elettorale più trasparente. Eppure, da decenni vige il nepotismo nella scelta delle classi dirigenti, scelte che si interrompono, non grazie alla democrazia, ma con la violenza dei golpe.
In particolare, dal 1967 al 2023 la famiglia Bongo ha considerato il Gabon di sua proprietà. In particolare, il patriarca Omar Bongo Ondimba è morto nel 2009, dopo 42 anni di regno (la forma repubblicana, che è quella ufficiale, è solo teorica) e poi gli è succeduto il figlio Alì, il quale ha spadroneggiato fino al 2023. Nel 2018 il suo potere è stato messo in discussione da un ictus, per due anni ha fatto le sue veci il vicepresidente. Due anni dopo, Alì Bongo, essendosi ripreso, non volendo che la circostanza si ripetesse, ha riformato la Costituzione in senso autoritario: di fatto si può essere presidenti del Gabon fino alla morte. E non solo: anche gli ex presidenti sono immuni, non possono essere giudicati per i crimini da loro commessi mentre erano in carica. La particolarità della riforma autoritaria rispetto a quelle analoghe in altri Paesi africani è che, in caso di temporanea incapacità del presidente, il potere passa ai presidenti delle due camere e al ministro della difesa (perché la guerra è sempre una priorità) [Fonte: Giusy Monforte, analista dell’Istituto Analisi Relazioni Internazionali (IARI), articolo del 31 dicembre 2020].
Tutto questo aumenta anche il numero dei ministri corrotti e le minacce al bacino del Congo. La prima mossa auspicabile per fermare tutto ciò è una piena alleanza e collaborazione fra gli stati del bacino, in particolare il Congo e il Gabon. E questo problema ci riguarda, come razza umana, in quanto l’area in questione è il secondo polmone verde del pianeta, dopo l’Amazzonia, ed è altrettanto a rischio. Naturalmente, l’unità auspicabile dell’Africa è ostacolata in buona parte dall’eredità del colonialismo. Non si può nemmeno dire che i francesi abbiano “costruito le strade”, in quanto la prima ferrovia gabonese fu realizzata solo nel 1981, più di vent’anni dopo l’indipendenza.

Cecilia Alfier

laureata in scienze storiche, aspirante giornalista, giocatrice di scacchi e di bocce paraolimpiche, vive a Settimo Torinese (To)