Salvare
Oggi, nell’era tecnologica dei computer, si usa spesso il termine “salvare” per “memorizzare” inteso come mettere da parte, tenere classificati e a disposizione informazioni, pensieri, appunti, materiali posti in spazi che non sono più mentali ma virtuali, digitali, compressi, zippati, in file o cartelle.
Ma “salvare” o “fare memoria” non sono esperienze così sovrapponibili né dal significato così riduttivo, queste due parole non possono cadere vittima, nel giro di una sola generazione, di un impoverimento di senso dato da una sbrigatività e banalizzazione dell’uso, dall’omologazione dei tasti delle nuove icone digitali e degli invii, che riducono la potenziale evocatività dei possibili universi semantici di riferimento a un mero “tenere da parte”, archiviare.
Serve anzitutto tempo, motivazione, passione e coscienza per fare memoria, per salvare ciò che vale, a volte non basta tutta un’esistenza; è evidente, allora, che non è certo sufficiente il clic di un mouse. Salvare e fare memoria sono esperienze complesse e interdipendenti, hanno a che fare con le parti più profonde della vita, con le istanze del passato, le attese del futuro, con l’identità e la rappresentazione, con le possibili narrazioni e l’interpretazione, con i significati e le priorità, con la stasi e l’evoluzione, con l’essere, assieme ad altri, creature vulnerabili e fragili, in cammino. Tutto questo non si archivia, non si scheda o classifica, perché è vita dialogante, che interpella sé e il mondo, il presente e la storia.
Memorizzare e salvare
Memorizzare, fare memoria è tenere a mente, trovare occasioni per ricordare, non è solo un mettere via, ma un portare dentro, un tenere con sé, un continuare a rimettere in gioco, elaborare, nel tentativo di dare nuovamente forma, restituire con la parola, il segno, la rappresentanza.
E salvare è ancora di più: è uno “starci” in prima persona, è un mettersi “dalla parte di”, scoprire ciò che vale e mantenerlo protetto, salvo, appunto. Salvare è un’azione intima, appartiene non tanto al dominio della mente ma alla profondità dell’anima quando sa riconoscere ciò che ha senso, ciò di cui non si può fare a meno, ciò che conquista la nostra fedeltà e la nostra fiducia.
Salvare non è, poi, una pretesa ingenua e infantile di onnipotenza, non è nemmeno un’esperienza di dominio, di possesso, non si salva se si blinda in cassaforte, né se si lascia incontaminato, se si mantiene asetticamente lontano dalle emozioni e dalle contraddizioni del sé e del mondo circostante. Salvare è un desiderio del cuore, umile e segreto, è un’adesione silenziosa, è un esserci con gli altri. Si salva ogni volta che si riesce a tenere dentro una storia, una vita, un incontro, un amore, una domanda, ogni volta che si mantiene non solo conservato, ma anche fecondo, ciò che va fatto salvo, il dono, la scoperta, facendolo divenire esperienza di profonda ri-generazione.
Siamo sempre più pieni di dati e materiali immagazzinati, classificati nei nostri computer che diventano sempre più velocemente obsoleti e inutilizzabili, ancoraggi e riferimenti spesso superficiali che non risolvono le nostre insicurezze, poco dialogano con i nostri saperi, poco stimolano e mantengono vivo il nostro cercare, il nostro tentare di com-prendere, inteso come prendere ogni giorno con sé, portare dentro e non lasciare nella memoria di un hard disk.
E allora si scoprono altre parole importanti che evocano questi compiti dell’anima, che danno ragione della nostra umanità adulta: fare memoria, salvare, implicano anche la capacità di con-servare, inteso proprio come serbare dentro di sé, custodire, vegliare, ma anche difendere, liberare.
Salvare significa fare salvo e deriva da una parola antichissima, dal sanscrito sarvas, che originariamente significa tutto, intero.
Mettere insieme narrazioni possibili
Ma come poter far salvo tutto ciò che conta, tentare di fare memoria nella sua interezza? Scartato il pensiero onnipotente, e nel qual tempo ingenuo, che insinua la possibilità di avventurarsi da soli in questa impresa impossibile, di poter dar ragione da soli dell’esperienza, dell’incontro, del senso, della storia che si vuole salvare, si scopre che si può preservare questo desiderio di interezza, di compiutezza, attraverso la partecipazione attiva degli altri.
Si scopre, così, che è essenziale l’apporto di tutti, che solo dall’intrecciarsi delle diverse narrazioni, punti di vista, risorse, energie, memorie, parole, silenzi, emozioni e volti di ognuno è possibile cogliere la complessità e l’interezza dell’esperienza che si vuole salvare, di cui si vuole continuare a fare memoria. Così facendo scopriamo una dimensione fondante la relazione autentica: quella di sentirsi consegnati gli uni agli altri, dentro a una dimensione concreta ed evidente almeno di veglia, di reciprocità, complementarietà, interdipendenza. Solo così, assieme, forse è davvero possibile salvare, nella sua interezza, ciò che ci sta a cuore.
E questa è certamente un’esperienza di comunità; solo all’interno di un gruppo, di una comunità allargata è possibile fare memoria, salvare le cose belle e buone; questo aiuta a continuare, a perseverare, indica la strada, rinsalda i legami, evita la banalizzazione o, peggio ancora, la deformazione, l’ideologizzazione, rende vicino, comprensibile un fatto, un’esperienza, ne spiega le ragioni, ne riattiva la passione e la ri-conoscenza, in quanto possibilità di continuare a conoscere, a tornare a conoscere ed essere grati.