Per che cosa lottare davvero
Che cosa insegna il Brasile di oggi
Tra le infinite nefandezze pronunciate e compiute da Vladimir Putin, il sanguinario Presidente della Federazione di Russia, c’è una verità amara e pressoché indiscutibile, che riguarda l’Occidente e che descrive impietosamente la sua decadenza e la sua crisi. Certamente Putin ragiona “pro domo sua”, mostrando una visione distorta e strumentale degli stessi principi di moralità e di organizzazione sociale, ma l’accusa in quanto tale, ahimé, conserva un senso. Non si tratta tanto di una crisi semplicemente politica, economica e sociale, ma è innanzitutto un indebolimento culturale circa i valori umani che sono stati maturati attraverso secoli di lotte e di sacrifici e che in Occidente ci hanno lasciato in eredità una consapevolezza profonda sulla sacralità laica e religiosa della condizione umana, a partire dall’affermazione del diritto alla vita e a una vita dignitosa, passando poi attraverso valori quali la libertà, l’uguaglianza, la giustizia sociale, la pace e la democrazia. Oggi, svolgendo una lezione di mia competenza nella nuova disciplina trasversale di Cittadinanza e Costituzione, ribadivo agli studenti la mia convinzione personale che l’Europa costituisce sempre la culla in cui questi principi non sono stati soltanto adagiati e custoditi, ma soprattutto praticati. Attraverso l’Europa quel concetto generico e stranamente coincidente con un orizzonte geografico, quale è l’Occidente, è diventato un orizzonte esistenziale in ambito comunitario e civile al punto da essere considerato un ideale per interi popoli che, in un modo o nell’altro, non hanno mai potuto godere fino in fondo di questi raggi di dignità. È ipocrita negare che si guarda all’Occidente per i suoi modelli antropologici e sociali positivi. Oggi però quest’orizzonte è in crisi per una pluralità di ragioni che varrebbe la pena indagare, ma che ormai stanno lasciando il campo alla necessità di imbastire una nuova lotta, stavolta prevalentemente di difesa, di ciò che si è maturato in passato e che ci ha consentito di crescere prodigiosamente. L’Occidente attraversa una sua crisi di crescita e pare essersi smarrito dentro un coacervo di contraddizioni che in molti casi si è costruito irresponsabilmente da sé e che in altri frangenti sono state artificiosamente prodotte dai suoi avversari di oggi con mezzi spregiudicati, a partire dalle nuove forme di comunicazione. Molti amici mi chiedono una valutazione di ciò che sta accadendo in Brasile, una Repubblica (detesto i concetti limitativi di nazione e di patria) che, com’è noto, conosco discretamente e che soprattutto amo, ma paradossalmente quanto verificatosi laggiù è il sintomo di un male planetario che scuote la stessa concezione della persona umana e delle società che la accolgono. Quanto sta accadendo in Brasile è soltanto la conseguenza logica e temporale di un processo conflittuale, che pure è nato da un parto felice dopo la fine della dittatura militare nel 1985. La Costituzione Federale del 1988, pur nella sua ridondanza tipicamente latinoamericana, ha rappresentato un passaggio assai interessante verso una civiltà democratica baciata da una freschezza che in Europa non conosciamo più.
Basti pensare che, nel confronto con il processo costituente italiano, una differenza fondamentale ha contraddistinto la fase redazionale del testo.
In Italia diciamo giustamente che la Costituzione è nata dalla Resistenza Partigiana, movimento popolare spontaneo contro la barbarie nazifascista, e che si è consolidata con l’apporto determinante degli intellettuali di ispirazione cattolico- democratica, socialcomunista e liberaldemocratica, una volta prestati alla politica, ma che è stata assai poco una “riflessione di popolo”.
In Brasile la Costituzione, emersa dal trauma della dittatura, ha goduto invece di una riflessione popolare intensa, passata attraverso i movimenti popolari, i dibattiti della società civile, l’ascolto delle realtà che da secoli pativano l’emarginazione culturale e sociale, la valorizzazione delle energie morali delle stesse istituzioni religiose, a partire da una Chiesa cattolica fortemente coinvolta nella sua responsabilità di educazione civile e politica a servizio della persona umana.
La Costituzione brasiliana è semplicemente bella e, in qualche caso, perfino propositiva di istituzioni quasi impensabili qui da noi, a partire dal “Ministério Público”, organo territoriale a tutela specifica dei diritti del cittadino davanti agli eventuali abusi dell’autorità politica e amministrativa e a tutela dei diritti delle classi sociali più disagiate e indifese. Perfino lo stesso processo elettorale è avanzatissimo, poiché è affidato a un organo, il “Tribunal Supremo Eleitoral”, svincolato dal controllo politico diretto, ed è fruitore di mezzi tecnologicamente avanzati e sicuri, come il voto elettronico, diffuso perfino nella foresta più impenetrabile.
Accanto a questi elementi di grande innovazione, il Brasile è cresciuto, portando tuttavia con sé anche le sue contraddizioni, le sue ferite, i suoi dolori, i suoi mali, le sue crudeltà. Tutto quanto fondato su un’ingiustizia strutturale che si è fatta sistema per secoli e che oggi non vuole né può morire in fretta.
I primi due mandati presidenziali di Lula sono stati una ventata di aria fresca, entrata miracolosamente dalla finestra e assistita dalla fortuna di una congiuntura internazionale favorevole. Ricordo molto bene, quando sono sceso per l’ultima volta nel 2015, sei anni e mezzo dopo la penultima, di avere trovato un Paese più maturo, responsabile, degno, quale risultato di un processo non soltanto politico, ma soprattutto culturale e morale. Ogni scelta politica, compiuta o negata, é, in fin dei conti, la conseguenza di un itinerario di maturazione, a sua volta intrapreso o rifiutato.
Il Brasile è costituito da un popolo giovane e poco contaminato dal logoramento degli ideali. Quindi può permettersi la speranza.
La caduta violenta di Dilma Rousseff, collaboratrice stretta di Lula, a lui succeduta nella Presidenza della Repubblica e inopinatamente destituita con la complicità del Vice-Presidente Temer, è stata l’esito di un colpo di Stato costituzionale, teso con accuse incomprensibili, associate però a un progetto perfettamente comprensibile delle classi ancora dominanti nella società, nell’economia e nella politica. L’arresto arbitrario, sostenuto da accuse altrettanto arbitrarie, di Lula, detenuto per più di un anno in una struttura della Polizia Federale a San Paolo, ha completato l’opera di neutralizzazione temporanea di questo importantissimo processo di crescita e di maturazione.
Le classi dominanti puntavano all’elezione presidenziale di un soggetto rigidamente conservatore, ma anche duttile e malleabile sotto il profilo politico-economico, e soprattutto di grande esperienza. Hanno commesso l’errore di disarcionare malamente il nemico senza trovare il cavallo vincente per sé stessi e così si sono ritrovati quella nullità estremista di Jair Messias Bolsonaro in una posizione privilegiata per la vittoria finale e lo hanno accettato “obtorto collo”, pensando di poterlo poi gestire. Cosa non accaduta.
Bolsonaro resta un personaggio paradossale, discretamente disturbato, rozzamente maschilista e militarista, ma egli è soprattutto un uomo del passato, portatore di un modello autoritario antico, legato all’America Latina dei brutali colpi di Stato militari. Incapace di governare la complessità del presente e gravemente inadeguato, si è dedicato anima e corpo a iniziative estemporanee di natura populista ed è stato travolto da una gestione demenziale dell’epidemia di coronavirus, che in Brasile ha provocato quasi settecentomila morti.
Quest’uomo è il prodotto della peggiore destra mondiale e nello specifico latinoamericana, strumentalmente religiosa, economicamente ultraliberista, socialmente escludente, culturalmente violenta.
Resta un interrogativo inquietante il suo grande successo elettorale nonostante la sconfitta di misura contro un Lula purificato e liberato. Avere ottenuto il 49,1% dei voti è un fatto sbalorditivo, che la dice lunga sulle capacità di aggregazione del neofascismo dell’estrema destra in tutto il mondo democratico. L’esito della tragica manifestazione di Brasília, che altro non è stata che la fotocopia di quella trumpiana del 6 Gennaio 2021, non poteva che essere fallimentare, ma ha dichiarato in modo netto due verità: “in primis” che Bolsonaro ha lavorato a questo disastro con intenti golpisti, mettendosi comunque al riparo negli USA nel caso di naufragio dell’iniziativa, e “in secundis” che ampi settori delle Forze Armate, della Polizia Militare (e non di quella Federale, tradizionalmente moderata e filogovernativa) e della società civile del Centro-Sud (la parte più sviluppata) hanno recepito il virus dell’involuzione totalitaria.
Oggi in America Latina si gode provvidenzialmente di un vantaggio che discende ancora una volta dalla crescita democratica degli ultimi decenni: i crudeli e classici colpi di Stato militari del passato non sono più praticabili. Dopodiché restano questi sussulti che suscitano allarmi nel cosiddetto Primo Mondo, ma che, a mio parere, devono indurre a una riflessione che faremo bene in un altro momento e che purtroppo investe la sfida epocale che il tempo presente ci sta rivolgendo e che può essere riassunta in un semplice interrogativo: l’Occidente è forse stanco della sua civiltà democratica?
Davvero è sopraggiunto il tempo in cui dobbiamo chiederci con urgenza e con residua passione per che cosa lottare davvero.
Resto dell’idea, che svilupperò a breve, che oggi ogni grande processo dialettico che oppone idee diverse in ambito politico, economico, sociale e culturale sia oltrepassato dall’emergenza democratica, in altre parole dal conflitto pericolosissimo e quasi apocalittico (nel suo senso di rivelazione definitiva) tra la democrazia e i totalitarismi e tra i valori etico-civili che ci hanno guidato in questi decenni (libertà, giustizia sociale, pace, progresso, sviluppo e uguaglianza) e i modelli oscuri di chi propone forme e istituzioni che negano tutti questi stessi valori.
Su questo mi permetto di dire che sono molto più preoccupato per la debolezza dell’Occidente europeo che non per i sussulti eterni dell’America Latina. Si tratta una guerra mondiale sovente senz’armi, ma armata con strumenti subdoli di annientamento della libertà di coscienza, della capacità di analisi e di critica, della complessità del pensiero, della consapevolezza circa la dignità personale, del senso della comunità.
Oggi i totalitarismi sono all’offensiva con strumenti efficacemente devastanti e possono arrivare ovunque.
Per favore, prepariamoci a lottare. È arrivata l’ora.