Liberia

di Alfier Cecilia

Uno Stato dalle ceneri dello schiavismo
Nel novembre 1469, per una temporanea concessione, il privilegio reale della corona di Portogallo sulle scoperte e i commerci africani venne ceduto al ricco mercante F. Gomes.
In cambio di favori commerciali al Portogallo, lui e i suoi agenti si erano assicurati un grande affare, decidendo di cominciare una proficua vendita in Europa di una particolare specie di pepe africano, la melegueta, che i bianchi ribattezzarono subito «grani di paradiso». Quindi la parte dell’attuale Liberia, piccolo stato dell’Africa occidentale che dà sull’Oceano Atlantico, divenne la “Costa del Pepe”, insieme a territori di altri futuri Stati.
Il tratto interessato ci mise molto tempo a diventare la Liberia: si cominciò a costruire la capitale Monrovia nel 1822 e la Repubblica di Liberia nacque ufficialmente solo nel 1847.
La sua storia, purtroppo, è legata a doppio filo alla schiavitù: degli ex schiavi affrancati lasciavano gli Stati Uniti alla ricerca di una terra dove abitare.
L’abolizione ufficiale della schiavitù nel 1807 e 1808 fu naturalmente una grande conquista di civiltà, ma comportò anche degli strascichi negativi: la schiavitù sopravvisse (e sopravvive) in forme ufficiose e gli schiavi liberati, spesso, non sapevano che fare. Resi solidali dalla stessa esperienza, finivano per fare comunità. Per esempio, Freetown, sulla costa atlantica, divenne capitale della Sierra Leone perché lì la flotta inglese intercettava le barche degli schiavisti e li costringeva a sbarcare gli schiavi, affrancandoli dalla loro condizione. Per la nascita della Liberia il processo fu analogo, ma partì direttamente dall’America. Al centro di tutta la storia c’è il razzismo endemico statunitense e il conseguente problema dei neri liberi in USA: molti afroamericani ritenevano giusto rimanere in USA e combattere per l’uguaglianza, altri volevano fuggire via. Mentre moltissimi bianchi volevano che loro se ne andassero, chi per puro disprezzo e chi pensando che sarebbero stati più felici in Africa o che in Africa avrebbero potuto portare i valori della cristianizzazione.
Da questi intenti, nel 1817 nacque l’American Colonization Society, una società che si proponeva di riportare gli afroamericani in Africa, come alternativa all’emancipazione in quella che per molti di loro era la patria, a tutti gli effetti. Fu questa società a fondare Monrovia nel 1822. I nuovi insediamenti e i tentativi di insediamenti indisposero i capi africani che certe volte riuscivano, anche senza violenza, a respingere i nuovi arrivati. Nella maggior parte dei casi, i capi furono costretti con la forza e l’intimidazione a svendere le loro terre. Per questo motivo e per il divario culturale, gli ex schiavi non si integrarono mai con la popolazione indigena, gli indigeni li consideravano comunque dei “bianchi”, indipendentemente dal colore della pelle.

L’epoca delle guerre civili
La colonia riuscì comunque a svilupparsi abbastanza tranquillamente, anche grazie al florido commercio della pianta di caucciù, la cui esportazione, sebbene in crisi, è ancora oggi un pilastro dell’economia locale. I problemi legati a conflitti civili iniziarono nel 1979, anno nero un po’ ovunque. Il prezzo del riso aumentò paurosamente, portando a insurrezioni e ribellioni. Il presidente Tolbert venne fucilato, la Costituzione sospesa e il sergente Doe rovesciò il regime e promise democrazia. L’apertura democratica fu annunciata nell’aprile del 1980, in seguito alla firma di un accordo col Fondo Monetario internazionale. Questo non bastò a tranquillizzare la situazione: fra il 1980 e il 1989 ci furono ben nove tentativi di golpe che Doe riuscì a fronteggiare ed elezioni nel 1985, caratterizzate da violenze, brogli e corruzione, il cui risultato riconfermò Doe. Le persone erano sempre più povere e le tensioni all’ordine del giorno, fino a che l’opposizione guidata da Taylor decise di invadere militarmente il Paese, passando dalla Costa D’Avorio. Era il dicembre 1989 e fu allora che cominciò ufficialmente la guerra civile. Le cose divennero ancora più drammatiche quando una parte dei seguaci di Taylor si staccò da lui: da questi ribelli dei ribelli sorse il Fronte Patriottico Nazionale Indipendente della Liberia, guidato da Prince Johnson, che destituì e uccise Doe nel 1990. Nel 1993, il Consiglio delle Nazioni Unite riuscì a fermare la guerra interna, assumendo il potere. Da qui è molto complicato seguire l’andamento della situazione, fra guerra, guerriglia e tentativi di giustizia e pace. Ricordiamo ad esempio il 1997, quando il leader della rivolta Charles Taylor instaurò un governo che usava la tortura, gli stupri, le uccisioni e i bambini soldato come strumenti di potere. Pagò parzialmente nel 2013 quando la Corte dell’Aja lo condannò per crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
L’ONU rimase fisicamente in Liberia ben oltre la fine ufficiale dei conflitti, con l’intento, non riuscito del tutto, di accompagnare la transizione democratica. Quindi, dal 2016 spetta a un governo democratico mantenere la stabilità e il rispetto dei diritti, in un Paese che, oltre a essere martoriato, è anche in una crisi economica dovuta al crollo delle sue esportazioni.

L’elezione di Weah e la lotta al razzismo
Da qui la grande valenza delle elezioni del 2017, che vedevano l’allora vicepresidente Joseph Boakai (del Partito dell’Unità, di orientamento liberale) vedersela contro George Weah, un po’ più a sinistra con il suo Congresso per il Cambiamento Democratico, nonché ex Pallone d’Oro del Milan. Anche se non del tutto democratiche le elezioni lo erano nella forma: si svolsero in tranquillità e con regole condivise da entrambi i fronti.
La vittoria di Weah non è dovuta solo al programma, ma anche agli scandali giudiziari legati alla corruzione, o presunta tale, del partito avversario. Il governo di Weah è deciso nell’affrontare il razzismo in Liberia, dove è più difficile diventare cittadino se sei bianco; inoltre si sta facendo il possibile per arginare i reati di violenza sessuale, che sono una piaga, probabilmente perché erano stati normalizzati dai capi precedenti. Le misure economiche non sono sufficienti, ma intanto si sta faticosamente uscendo dal susseguirsi di guerre civili.

Cecilia Alfier

laureata in scienze storiche, aspirante giornalista, giocatrice di scacchi e di bocce paraolimpiche.