La fatica di leggere e la ricerca della semplicità
Quanti leggeranno questo articolo, che con magnanimità la redazione osa innalzare a editoriale? Non voglio colpevolizzare i fedeli abbonati di madrugada ma anzitutto confessare la mia fragilità: anch’io faccio sempre più fatica a leggere le riviste che mi arrivano a casa.
Inizio un articolo ma dopo dieci-venti righe smetto e passo alla pagina successiva. Alla pagina successiva faccio lo stesso. E continuo così fino alla fine. Di una rivista leggo quindi i titoli e poco più. Leggere mi appare impresa sempre più ardua: e ciò che succede a me, vedo che succede pure a mia moglie. Per non parlare di quel che fanno i miei figli: loro non sanno neanche più cosa sia un giornale o una rivista e sono tutto il giorno attaccati a cellulare, WhatsApp, Instagram, TikTok.
Le forme di sapere che stiamo perdendo
Nel centenario della nascita di don Milani (figura irraggiungibile nella sua dedizione educativa che non si merita l’eccesso di retorica di molte commemorazioni) e nel centenario della Riforma di Giovanni Gentile (Mussolini la salutò con enfasi esagerata come «la più fascista delle riforme», così fascista che la Repubblica l’ha mantenuta fino ai nostri giorni!), credo che valga la pena soffermarsi anche sull’affermazione che venticinque anni fa avevo trovato in un libro di un raffinato linguista, Raffaele Simone (La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza): la trasformazione della strumentazione tecnica cambia inevitabilmente la forma del sapere. Dall’intelligenza sequenziale stiamo passando all’intelligenza simultanea.
L’intelligenza sequenziale, che è appunto l’intelligenza che si usa per leggere, analizza e dispone in successione i codici grafici. Richiede silenzio e una buona dose di concentrazione. L’intelligenza simultanea è caratterizzata invece dalla capacità di trattare nello stesso tempo più informazioni, senza però essere in grado di stabilire una successione, una gerarchia e quindi un ordine.
È l’intelligenza utilizzata, ad esempio, quando guardiamo un quadro, dov’è impossibile dire cosa venga osservato prima e cosa dopo. Nel passaggio dall’una all’altra intelligenza molte dinamiche mentali mutano radicalmente. Il ritmo che nella lettura è autotrainato, nella visione è eterotrainato: sei costretto a seguire i tempi imposti dallo spettacolo. Ciò comporta una riduzione della correggibilità: non puoi fermarti per verificare se hai ben capito quello che hai visto, utilizzando la tua enciclopedia di conoscenze precedenti. La successione delle immagini non lascia il tempo di riflettere, approfondire, respirare (sarebbe bello analizzare come sono anche cambiati i film d’animazione, dal lento ed elegantissimo Gli Aristogatti all’ipercinetico e adrenalico Tarzan). In compenso la visione esercita la multisensorialità, per cui se ti perdi quel che trasmette il canale uditivo puoi seguire quello visivo e viceversa: alla fine qualcosa rimarrà. Inoltre, a differenza della lettura, la visione consente di coinvolgere immediatamente anche l’emozione, che cattura l’animo prima ancora di un’elaborazione. La fatica di leggere non può mai competere con la facilità di guardare. Il video batte il libro sei a zero.
Se l’intelligenza sequenziale, che finora ha caratterizzato l’Occidente nella costruzione delle sue conoscenze, cede dunque ogni giorno di più il passo all’intelligenza simultanea, le conseguenze non solo si abbattono sulla vita di un adulto come me, che ormai non riesce più a finire un articolo e men che meno un libro, ma diventano uno tsunami devastante per la scuola.
Da sempre, la scuola mette al centro l’intelligenza sequenziale.
Ha come primo obiettivo l’insegnamento della lingua e la lingua senza lessico, senza ortografia, senza analisi grammaticale, analisi logica e analisi del periodo non si impara. Occorre scrivere, scrivere e ancora scrivere: riassunti, parafrasi, dettati, temi. La scuola ha nello stesso tempo il fine di creare un’amicizia coi libri. I libri sono un grande aiuto per entrare nel mondo e per capirlo meglio, e un grande stimolo per contestarlo, contraddirlo e cambiarlo. I libri ci aiutano a dire una parola diversa, a non ridurci a meri ripetitori del monologo collettivo, a rifiutare l’oppio mediatico con cui si addormentano le coscienze, affinché non sognino, e soprattutto non si risveglino. Di fronte allo sforzo necessario per l’apprendimento della lingua e per la lettura di almeno qualche classico i giovani arrancano. Andare a scuola è solo costrizione. Aspettano il suono della campanella per tornare a immergersi nel flusso delle immagini, che non hanno bisogno di essere tradotte in strutture discorsive e raccontate analiticamente. Per loro la realtà vera e autentica non si articola in proposizioni verbali, ma in emozioni totali, tipo quelle che dà la musica. Anche la musica è intelligenza simultanea e diventa infinitamente più coinvolgente di qualsiasi materia scolastica, perché fa vibrare e viaggiare velocemente in spazi completamente diversi.
Una sfida epocale
La scuola si trova ad affrontare una sfida epocale, sfida a cui non può rinunciare pena la sua totale insignificanza. Ha il sapore di rinuncia, ad esempio, abbassare il livello, scegliere il “facilismo”, non far scrivere più temi, limitarsi a introdurre le prove scritte a risposta multiple, le slides, il PowerPoint, le lavagne LIM, valutare tutti positivamente, chi sa e chi non sa, chi ha studiato e chi no (all’esame di Stato, modificato ben 14 volte dal 1923, il tasso di promozione è del 99%) per paura dei ricorsi al TAR. Ha il sapore di rinuncia continuare ad assecondare una generazione di genitori che sta rovinando i propri figli, proiettando su di loro la visione di un mondo fatto di diritti acquisiti non negoziabili, di aspettative indefinitamente crescenti, promettendo un’“’isola che non c’è” e che non ci sarà mai.
Ha il sapore della rinuncia continuare a lanciare fumogeni, tipo la proposta di un “Liceo del Made in Italy” fatta da Giorgia Meloni al Vinitaly di Verona, e che riprende i contenuti del Ddl n. 497 depositato al Senato nel luglio dell’anno scorso e incardinato dal 23 gennaio 2023 nella Commissione Cultura e Istruzione. Sarebbe l’ennesimo liceo, dopo quello classico, scientifico, scientifico con opzione scienze applicate, scientifico-sportivo, linguistico, musicale e coreutico, delle scienze umane, delle scienze umane con opzione economico-sociale, turistico, dello sport.
Io non ho nessuna competenza per dire in quale direzione dovrebbe andare la scuola italiana. Però ogni sera ascolto le considerazioni di mia moglie, professoressa di lungo corso in una scuola superiore della periferia milanese e mi sono fatto l’idea che quasi tutto dipenderà se in questo sconquasso ci saranno ancora insegnanti che non mollano. Donne e uomini colti e generosi, che svolgono con costanza e passione il loro compito di «maestri».
Che mantengono la fiducia: sepolta sotto tonnellate di immagini bugiarde e seducenti, una zolla nella mente dei ragazzi accoglie, incamera, trasforma segretamente e quindi qualcosa fiorirà, se non oggi domani, se non domani tra dieci anni, quando tutta questa acqua che brilla d’olio e sozzerie si ritirerà. Professori che impediscono agli alunni di diventare idioti e mentecatti correndo dietro a calciatori e influencer. Che fanno la cosa educativamente più impegnativa: sgombrare il terreno dall’idolo della Facilità e accompagnare lungo la via della Semplicità.
In questo nostro tempo la dea Facilità canta soave e prova ad ammaliarci. Il passaggio dall’intelligenza sequenziale a quella simultanea sta creando in tante menti la più terribile delle illusioni: che si possa crescere, imparare, diventare saggi senza fare fatica. La Facilità invece è un imbroglio, dissolve tante capacità intellettuali e manuali, fa parlare a vanvera e vivere a casaccio. Ci salveremo solo con la Semplicità, che è il risultato di un lungo lavoro, il miele prodotto dal lavoro complicato dell’alveare, il vino squisito che dietro di sé ha la fatica della vigna. Noi tutti, giovani e adulti, abbiamo un disperato bisogno di Semplicità, di cibo “semplice”, di libri “semplici”, di relazioni “semplici”. Perché, come ci insegnavano a scuola, «simplex sigillum veri».