Interconnessi e soli
La vita non si arrende
Altri tempi
La barca esce dal porto ed è notte. Calano le reti, poi attendono. E intanto, d’improvviso, si alza il vento. Si scuotono dal sonno i marinai. Le onde sono già alte. Sono distanti dal porto, dalla riva. S’affrettano a salpare le reti per rientrare. S’accendono le prime luci del mattino. Si muovono verso il faro. Da terra avvistano la barca in difficoltà, il porto è molto stretto. Attenzione a infilare la bocca del porto e non lasciarsi andare alla deriva.
Accorrono al molo le donne, i ragazzi e gli uomini per vedere e per soccorrere. La barca galleggia di fronte alla bocca del porto, un’onda alta la alza e poi la spinge verso il basso.
Sul fondo dell’onda, il motore si inceppa e si spegne. Ora i marinai si sentono inghiottiti e sulle banchine del porto scende il silenzio. Gli uomini si sono legati con le funi alla barca.
I loro volti sono spauriti. Nell’angoscia piano piano la barca risale e lentamente riemerge dal fondo e sta dentro la bocca del porto. Salvi. Dalle banchine, la folla grida, batte le mani.
Ora i pescatori scendono, abbracciati dai loro cari.
Lasciare andare.
Qualcuno dei nostri lettori conosce questa frase. Un modo per evitare lo scontro, un modo anche per respirare. Una necessità. Lasciare andare. Le vecchie case si spopolano e i figli se ne vanno, liberi di partire. Le case tornano nel silenzio. Partono e trovano lavoro altrove; partono e formano famiglia. E chi resta, li aspetta ma bisogna lasciarli andare.
Rassegnarsi. Lasciare andare è anche tenere dritto il timone, ma sapere che non siamo padroni della verità, che non è cosa astratta. Ma nasce dall’incontro con gli altri, e nasce dall’attenzione che poniamo alle voci altrui. Lasciare andare non vuol dire cedere il passo e lasciarsi travolgere dall’onda. Lasciare andare è smussare gli angoli, per accogliere nuove presenze, nuove proposte.
Nuovi lavori, nuove idee, nuove presenze. Gli stranieri in Italia. Vogliamo parlarne? No, ché di parole se ne sono dette tante. E invece si può. Ci sono stranieri che non sono più stranieri, sono nati in casa nostra e sono cittadini a tutti gli effetti. La nostra preoccupazione è che si integrino con noi, che accolgano le nostre leggi, il nostro ordine. Ecco partiamo dall’ordine. Mettersi in fila, alzare la mano per prendere la parola, iscriversi al collocamento.
Imparare la nostra lingua, conoscere la Costituzione, osservare le leggi. L’ordine è la nostra preoccupazione, il baluardo della nostra cultura che crediamo monolitica e non lo è, perché fatta di tante genti, di tante lingue e interpretazioni del vivere. E dunque l’integrazione avviene se si accoglie la cultura dell’altro come cultura articolata, che si è formata nel tempo e nelle vicissitudini della storia e dei rapporti tra i popoli. Per sfatare l’idea che il rapporto con gli stranieri abbia a essere unidirezionale; e non invece articolato, complesso, un incrocio articolato (e questa è la forte affermazione oggi di alcuni degli afroitaliani) come articolata è la cultura di ogni paese. Altrimenti si cade nella omologazione di una cultura dominante; come se chi proviene da altrove non abbia un modo di pensare e di decidere, di organizzarsi e di seguire la tradizione e i cambiamenti; un modo diverso, ma complesso, articolato, come lo è ogni cultura, che rispetta e vive nella storia e nel presente.
Gerarchie intoccabili
Lasciare andare. Non mettere steccati. I pregiudizi, ad esempio.
A ciascuno il suo lavoro e al vilan la carriola. A scuola quando un ragazzo non riusciva nel profitto scolastico, gli si diceva: le tue sono braccia sottratte all’agricoltura. Come se l’agricoltura non fosse un’arte e il contadino un asino da soma. Le stagioni, il tempo delle semine, il momento della potatura, il linguaggio delle piante e le loro necessità. E così nell’azienda l’ordine spesso diventa un pregiudizio. L’ordine diventa una gerarchia intoccabile. L’operaio ha il dovere di seguire il programma della ditta. Suggerimenti non se ne accolgono. La produzione, la concorrenza, il profitto sono paletti fermi, intoccabili. Le dinamiche di gruppo vanno controllate in funzione del profitto. Ma noi siamo corpi. Organismi perfetti, ma anche fragili, timorosi e protesi in avanti, gregari e intraprendenti. I corpi hanno i loro ritmi: e se non li rispetti, si ribellano, si ammalano, cercano surrogati al disagio. Non tenere conto dei corpi significa costruire un’economia senza umanità.
Ricordi
Qualcuno di voi forse ricorda il signor Seinde. Era un esperto di agricoltura. Veniva dalla Nigeria. Era uno scienziato. Coordinava l’attività dei contadini nel suo paese. La sua era un’attività concreta di lavoro, di produzione, di semina e di raccolta. Venne in Italia su invito di Macondo. Lo mandammo a visitare le cooperative agricole del Veneto. Quando rientrò a sera, gli chiesi come era andata, se era stato contento, quali fossero le sue impressioni. E se avesse appreso qualcosa di nuovo. Disse che aveva visto delle macchine di produzione e di servizio grandi, costose, che avrebbero impegnato anni di lavoro solo per ripagarne il costo. E aveva notato i corpi; sì, i corpi degli operai delle cooperative, invecchiati anzi tempo, consumati dal lavoro. Noi diciamo che il lavoro nobilita l’uomo.
Potremmo anche dire che i corpi, questa materia che consideriamo inerte, involucro dell’anima, si ribella. E noi siamo corpi. La malattia, l’invecchiamento precoce diventa una ribellione dei corpi.
Organismi perfetti, che richiedono una attenzione complessa.
Non basta il salario e non basta il beneficio della produzione e del mercato. Da noi – diceva Seinde – usiamo macchine più semplici, meno costose, per fare lo stesso servizio.
Il neoliberismo ha fallito, scriveva un amico. Mi colpiva il titolo.
Le conseguenze le vediamo nei cambiamenti climatici, nell’inquinamento, nei conflitti e nelle guerre. Ma come annotavo sopra, le conseguenze si vedono già nei corpi che lavorano, a un ritmo e a un ordine che non tiene conto della complessità della materia, e per materia mi riferisco non solo alla terra, al mare, ma anche ai corpi, che non sono involucro di uno spirito, ma sono unione e insieme distinzione delle parti. E le conseguenze sui corpi sono i primi passi del degrado, di una città, di una società, che perde i riferimenti della complessità della materia, su cui poggiamo i piedi, ma di cui facciamo parte, pur nella distinzione delle parti. I nostri corpi sono materia, che può essere degradata, ma le conseguenze sono deleterie.
Dicono che sapevano, ma non li hanno visti arrivare
Altrove, dove? sullo stesso mare, quale? Alla fine della notte, quando ancora non albeggia, una barca si squarcia su di un banco di sabbia e rigurgita nell’acqua tutto l’equipaggio. Sono donne bambini, uomini che provengono da terre sconosciute, lontane.
Il mare è cattivo, alte le onde, qualcuno raggiunge la riva. Altri corpi, sommersi dalla furia delle onde, non resistono e il mare li porta alla riva. Un pescatore sta per lanciare le sue reti. E sente voci, lamenti come di delfini e vede corpi sulla cresta delle onde.
Si immerge per salvare e per raccogliere i naufraghi che vengono da terre sconosciute. Cercavano buona sorte in terre ospitali; ma non c’era nessuno ad accoglierli. Solo le mani di un pescatore.
Amore per la vita
Sapere non è sentire. Sapevano, ma non li hanno sentiti. Noi siamo corpi e non ordine e ragione. E i corpi hanno un cuore, un cuore intelligente, che tace, anche se batte. Tace, se non lo ascolti. E allora, che fare? Serve un cielo stellato, come quello meraviglioso dipinto dal genio di Van Gogh e una legge morale nel cuore, l’unica possibile per tutta l’umanità: amore per la vita.
L’unico bene indisponibile che ci resta dopo aver privatizzato tutto, anche l’acqua.
Un cielo stellato libero di essere ammirato in ogni angolo della Terra, capace di ridestare sogni e desideri di libertà.
Il narcisismo imperante non permette ascolto vero, male del secolo amplificato dai social.
Dentro l’ascolto si apre un nuovo orizzonte solidale. Solido e articolato come i nostri corpi; per curare la solitudine non basta l’interconnessione, che spesso produce una palese contraddizione, un ossimoro: che siamo interconnessi e soli.