Il ruolo mobilitante dell’utopia
Alcuni anni fa ho avuto l’opportunità di lavorare come tutor formativo in un campus originale. Creato da una fondazione genovese, lo scopo di questo campus era quello di fornire sostegno all’avvio di progetti imprenditoriali di venti giovani scelti da tutta Italia che volevano investire la loro vita in regioni appenniniche. Una volta selezionati i venti progetti ritenuti più promettenti, ai giovani coinvolti venivano offerti tre mesi di formazione intensiva e residenziale in un piccolo paese del Piemonte, al confine con la Liguria e poco lontano da Lombardia ed Emilia-Romagna. La formazione spaziava da nozioni geografiche ad analisi del turismo, da nozioni botaniche a studio dei processi di finanziamento, da forme imprenditoriali possibili a studio di casi. A questo si aggiungeva un periodo di tirocinio in un’azienda del territorio e un laboratorio di creazione d’impresa che si è rivelato essenziale per rendere operativi i sogni di questi giovani.
Dare corpo ai sogni, creativamente
Messo a confronto con studenti impegnati in progetti di ricerca-azione riguardanti il rilancio dei loro territori di provenienza, il sociologo della cooperazione Henri Desroche (1914-1994) ribadisce l’importanza di nutrire utopie. L’utopia è come un miraggio, amava ripetere. È vero, nessuna carovana nel deserto raggiunge mai il miraggio, ma è proprio il miraggio a mettere in moto le carovane. Le utopie sono mobilitanti, anche se non saranno mai realizzate per come le avevamo in mente noi. Per avverarsi hanno bisogno di essere “messe a terra”, e questo comporta un certo grado di trasformazione. Sognavamo di cambiare il mondo, e magari abbiamo cambiato un paese o un quartiere. Sognavamo di trasformare i processi politici del nostro paese, e infine abbiamo fondato una Ong.
Volevamo risolvere il problema della denutrizione in un determinato territorio africano, e alla fine abbiamo realizzato delle scuole rurali di villaggio.
Desroche era stato per molti anni sociologo delle religioni. Aveva studiato le peripezie di coloro che avevano deciso di sottrarsi all’autorità di una chiesa ufficiale – spesso alleata con il potere politico – per dar vita a un regime comunitario nuovo. Era il caso di molte comunità messianiche e millenaristiche installatesi nel “nuovo mondo” americano nel XIX secolo. Studiando queste comunità, aveva compreso come le correnti rivoluzionarie siano fenomeni di natura carsica. Spesso represse o incomprese, per sopravvivere assumono forme meno inquietanti per il potere o il pensiero dominante. Così facendo, molte formazioni socio-economico-comunitarie rimangono “in stato di veglia” e nel frattempo sperimentano, per ritornare in superficie in modo inatteso e apparentemente improvviso, solide più che mai. Spesso è così per i movimenti sociali «che non si sono visti arrivare». È forse per questo che il teorico della cooperazione Georges Faquet (1873-1953) riteneva che l’invenzione e l’eresia fossero gemelle.
Per aiutare i suoi studenti a realizzare i propri sogni di cambiamento e familiarizzare con il loro inevitabile trasformarsi in qualcosa d’altro, Desroche teorizzava tre stadi per l’utopia: l’utopia sognata, l’utopia scritta, l’utopia praticata. Nel primo stadio l’utopia corrisponde ai desideri e ai sogni delle persone. È lo stadio in cui un progetto di trasformazione “tiene” perché intercetta il sogno di altre persone, anche se è ancora poco comunicabile o trasmissibile. Questo sogno non è chimera, ma speranza. A un secondo stadio, invece, l’utopia chiede che si trovino le parole per raccontarla e iniziare a condividerla, con la faticosa sottomissione della creatività al “dire”, al “dirsi” e al “saper dire”. È la fase di elaborazione di un progetto.
Il terzo stadio è poi quello della sperimentazione concreta, che funziona necessariamente “per prove ed errori”. In questo incontro complesso tra sogno e realtà sorgono inevitabilmente inconvenienti e disillusioni, ampiamente ripagati dal fatto che è questo il tempo dell’apprendimento (è anche il tempo dei cambiamenti che costano: ma esistono cambiamenti che non costano?).
Saltare una generazione, consapevolmente
Quasi tutti i giovani coinvolti nel campus di cui si è parlato all’inizio rappresentavano la generazione del ritorno alla terra. Avevano quasi tutti conosciuto i campi e il lavoro contadino grazie ai nonni, ma avevano vissuto in contesti urbani o urbanizzati, per via della professione dei genitori che avevano lasciato la campagna. Molti di lavoro avevano avuto esperienze pluriennali in contesti lavorativi considerati all’avanguardia (progettazione di eventi culturali, aziende multinazionali…) dopo multiformi formazioni post-laurea. Tant’è, in loro rimaneva il ricordo della casa dei nonni, del tempo passato a giocare nell’aia, del convivere con gli animali, della raccolta della frutta spontanea. È quella che potremmo definire la ricaduta educativa sul lungo periodo di un modello socioeconomico-culturale. Molti di questi progetti, infatti, avevano come fulcro il recupero della casa dei nonni ormai abbandonata o, in mancanza di questa, per lo meno il reinstallarsi nel paese degli avi.
Quando però la linea di successione è stata interrotta, si pongono almeno tre questioni. I giovani non sanno concretamente come fare, perché nel frattempo i nonni non ci sono più o possono contribuire solo con i racconti e i ricordi. Occorre poi convincere i genitori che è sensato tornare nei luoghi da loro stessi abbandonati perché non sembravano garantire un’idea di futuro.
Necessariamente, poi, bisognerà accettare che quanto si farà sarà “in linea” ma al contempo “in rottura” col passato, con quel passato che nutre nostalgia e utopie ma non potrà più ripresentarsi tal quale.
Le scoperte però non mancano. Meno legata al “si è sempre fatto così”, questa generazione è disposta al cambiamento, ma non a quei compromessi ai quali coloro che non hanno mai abbandonato la campagna a volte si prestano. Quando infatti un legame ininterrotto con la terra di famiglia è vissuto come una forma di condanna, si può rischiare di non amare davvero la madre terra in quanto essere vivente, con inevitabili corollari poco ecologici.
Mettere radici, storicamente
Al di là dei loro differenti progetti (birrificio agricolo, fattoria biologica, elicicoltura, agriturismo, campeggio sociale, ecovillaggio…), con cosa hanno imparato a fare i conti i giovani coinvolti nel campus? Soprattutto con l’idea che per vivere bene è importante che un luogo sia familiare, che parli, che offra significati. Questo luogo può essere legato a ricordi d’infanzia, a narrazioni di famiglia, a esperienze giovanili (uno dei progetti riguardava un luogo montano in cui si erano vissuti molti campeggi scout).
E tuttavia, anche un luogo conosciuto di recente può entrare in questa dinamica, quando colpisce e fa scattare la molla dell’innamoramento.
Lo scoprire uno spazio fisico e umano ricco, anche se si tratta di un luogo al momento semi-abbandonato, richiama alla graduale consapevolezza che altri prima di noi vi hanno vissuto, vi hanno lottato, vi hanno lavorato. E questa consapevolezza introduce in una sorta di staffetta, nella quale ciascuno è chiamato prima o poi a raccogliere il testimone e coprire un tratto di strada, corto o lungo che sia.
In fondo, l’utopia può essere proprio questo: “come” io/ noi copriremo quel tratto di strada?