Il richiamo della foresta
Quando gli umani riconoscevano gli alberi come esseri viventi
«Dobbiamo tornare indietro sui nostri passi. […]
Dobbiamo ritornare alla natura
e copiare i procedimenti
che si vedono all’opera nei boschi e nelle praterie».
[Albert Howard, I diritti della terra, 1940]
Ho recentemente sfogliato un testo che viene dalla penna di Marco Paci, docente di ecologia forestale all’Università di Firenze, pubblicato ventuno anni fa, finalmente tornato alle stampe in questi giorni per Robin Edizioni Biblioteca del Vascello (L’uomo e la foresta. Le radici degli uomini e le radici degli alberi). Il tema della foresta nell’immaginario collettivo trova spazio nella letteratura di tutti i tempi, dice l’autore del volume, capace di condurci dalla storia antica della Grecia e di Roma all’era post-industriale. In questo viaggio temporale, egli tenta sapientemente di risvegliare il sentimento della natura che è in generale così assopito da renderci incapaci di riprovazione di fronte all’incessante depauperamento della foresta planetaria.
Come tutelare davvero?
Proprio tra quelle pagine ingiallite della prima edizione spunta un vecchio articolo di giornale conservato come segnalibro e datato 1 ottobre 2008. Nell’inserto “L’ambiente” di Repubblica si legge: «Il censimento degli alberi più antichi d’Italia». Quando ancora il Corpo Forestale dello Stato era in essere, prima di diventare parte integrante dell’arma dei Carabinieri, auspicava il salvataggio e la protezione attraverso la catalogazione di 22.000 esemplari di piante di “valore” di cui almeno duemila di grande interesse e centocinquanta di eccezionale pregio storico o monumentale. Tra questi il cipresso coetaneo di San Francesco di Villa Verrucchio e l’olivastro (l’Olea europea oleaster) di oltre tremila anni che raggiunge ventitré metri di altezza a San Baltolu di Luras, vicino Sassari.
Oggi, dopo oltre vent’anni da quell’ambizioso progetto, possiamo affermare con cognizione di causa che, come è avvenuto in altri ambiti, quando si è dato inizio a catalogazioni e censimenti ai fini di tutela e conservazione si è paradossalmente perpetrato in direzione opposta l’assiduo e feroce decadimento di quei beni oggetto di interesse.
Il Medioevo che illumina L’albero, che nella storia millenaria dell’uomo ha costituito l’essenza del sacro nel mito e nella tradizione di tutti i popoli, si tramutò in strumento di controllo dell’autorità, risorsa nelle mani di pochi che ne decretarono l’uso anche indiscriminato, cosicché la foresta stessa diventò per eccellenza luogo dell’ambiguità. Il Medioevo degli alberi, titolo di un saggio magistrale di Alfio Cortonesi (edito da Carocci nel 2022), rappresenta un capitolo decisivo per le sorti della storia delle foreste in Europa e nel mondo. Sarebbe opportuno ripercorrere proprio quella storia per comprendere e svelare cosa sia accaduto agli humana per aver perso l’innato sentimento della natura. Se si facesse chiarezza, come ben esprime Cortonesi, sulla realtà e sugli avvenimenti che hanno sostanziato e definito quattro secoli di storia italiana dall’XI al XV secolo, si avrebbe una visione dei fatti e dello stato delle cose sideralmente opposta a quella del pensiero comune odierno. Un solo esempio tra molti: le clausole contrattuali degli affitti agrari prevedevano, durante il Medioevo, l’impegno per il fittavolo di mettere a dimora sia alberi, come la quercia rovere, sia piante da frutto e da frasca per il bestiame. Era inoltre d’obbligo per il conduttore del fondo o per il mezzadro rispettare la vegetazione boschiva e le siepi poderali che fornivano legname ma soprattutto le condizioni ideali di coltivazione e di separazione di proprietà (in alcune parti del trevigiano si trovano ancora i campi chiusi!).
Rispettare gli alberi non conviene più?
Oggi la totalità di coloro che affittano un fondo agricolo di pianura a seminativo vengono istruiti dai proprietari sulla gestione agricola, ovvero nella maggioranza dei casi non è concesso loro di investire, anche a proprie spese, su siepi o alberature, come se questa pratica fosse paradossalmente depauperante per il valore del fondo. Questo modus operandi ha generato, eccetto appunto rare eccezioni di conduttori e agricoltori “illuminati”, un degrado agronomico, ecologico e paesaggistico senza precedenti in tutta la pianura padana e questo, unito al consumo di suolo dovuto all’edilizia residenziale e industriale, costituisce – nonostante l’aumento della copertura boschiva in Italia nel suo complesso, per l’abbandono delle montagne – la principale causa della desertificazione e della perdita inarrestabile della risorsa suolo in termini di fertilità e biodiversità floristica e faunistica.
A tutto questo va aggiunto che l’attuale governo dei corsi d’acqua di pianura, in base a un disegno meramente politico che sconfessa le più basilari cognizioni di idraulica e di ecologia delle sponde fluviali, sta perpetrando la deforestazione di migliaia di chilometri di argini e rive, spogliandole della preziosa e indispensabile vegetazione spontanea. L’antico principio professato nei trattati di idraulica ai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia è valso fino a pochi decenni fa, quando una provincia della pianura padana come quella di Padova pubblicava guide per la buona gestione dei famosi cordoni verdi fluviali, ritenendoli indispensabili alla buona regimazione delle acque.
L’insostenibilità del “green business”
In pochi anni e in quasi tutta la nostra penisola, la conduzione dissennata delle amministrazioni regionali e locali della gestione del verde pubblico ha provocato il depauperamento del prezioso patrimonio forestale, quello che mitigava le distese di coltivazioni agricole, alberature storiche che segnavano confini poderali, storiche siepi naturali con specie autoctone, i grandi viali cittadini con platani, pini, bagolari e tigli capaci di assorbire le emissioni di CO2, produrre umidità e frescura nelle torride estati urbane, riparare dai rumori interi quartieri e limitare la diffusione delle polveri sottili. Questo abile e diabolico disegno, con l’alibi del rinnovamento delle alberature vetuste e coetanee, alimentato dal terrorismo ambientale della comunicazione che induce opportunamente paure immotivate (paradossalmente la morte per la caduta di un albero è messa dalla stampa molto più in evidenza rispetto agli incidenti stradali, che sono invece fenomeno crescente ma diventato notizia di poco conto) ha instillato comportamenti “albericidi” perfino nel privato. La fobia delle piante che danneggiano e sporcano, l’avversione verso i giganti della natura vicini alle case, temuti come veri e propri pericoli, ha creato un green business per le imprese della gestione del verde, per le ditte di pulizia dei condomini che si spacciano per capaci giardinieri, che nel pubblico come nel privato fanno affari come mai prima era accaduto. L’introito proveniente dal taglio della legna in cambio di operazioni di pulizia di fossi e argini ha consentito ai consorzi di bonifica di sollevarsi di costi elevati per attività, danneggiando le comunità che vivono in aree ormai desertificate e soprattutto la fauna selvatica che trova riparo proprio nei grandi ecosistemi fluviali. A tale proposito sono innumerevoli le note pubblicate dal WWF in dossier di recente pubblicazione, facendo chiarezza sulle false opinioni messe in circolazione dalla stampa e nei media in generale. Sul tema della manutenzione delle rive e degli argini, il WWF infatti, in un comunicato dello scorso giugno, si esprime così: «Se ne fa anche troppa, ma male e soggetta a meccanismi perversi che non garantiscono un’azione mirata.
Infatti, gran parte delle regioni, Emilia-Romagna compresa, “appaltano” a privati la rimozione dei sedimenti o il taglio della vegetazione, e i lavori si sostengono con il valore del materiale estratto o tagliato. Risultato: si interviene prevalentemente dove e quando conviene ai privati e in genere con interventi grandemente sovradimensionati che distruggono la vegetazione riparia con, spesso, un aumento del rischio idrologico».
Elogio delle virtù semplici
Per chiudere questa breve riflessione sull’impellenza di ripensare la natura e riavvicinarsi alla sua sacralità, riprendo un passo di uno scrittore americano dell’Ottocento che già alla sua epoca si soffermava proprio sull’inesorabile perdita del senso gioioso del guardare e toccare la madre natura: John Burroughs (1837-1921): «Sono convinto che sarebbe una sorprendente rinascita della religione se tutti la domenica camminassero per andare in chiesa. Lungo la strada, essi troverebbero sermoni nelle pietre1, l’incedere sulla ghiaia ridesterebbe le loro menti adombrate; i loro vani e sciocchi affanni, i pensieri sconfortanti, i vari demoni ossessivi, resterebbero indietro, incapaci di stare al passo o di resistere all’aria fresca! Si affrancherebbero dal loro tedio, dalle loro preoccupazioni terrene, dalla loro ingenerosità, dalla loro alterigia; poiché questi demoni vogliono andare in carrozza, mentre le virtù semplici non sono mai così felici come quando si va a piedi»2.
1 Allusione a W. Shakespeare, Come vi piace (1623), Atto II, scena I: «La nostra vita, non costretta in pubblico, sente gli alberi che parlano, i ruscelli che narrano, i discorsi delle pietre e bontà in ogni cosa».
2 Burroughs J., L’arte di vedere le cose. Leggere il libro della natura, Piano B, Prato 2021, pagg. 69-70.