Il lascito di Daniele Lugli come maestro
Come per Socrate
Sarebbe bello disegnare questo editoriale. O ancor più danzarlo. In qualche modo insomma far tacere le voci, scritte e dette.
Tradisco questo proposito, perché più urgente è sfidare l’assenza di parole – il potere più grande che possiamo lasciare in mano alla morte. Lo faccio in obbedienza a uno dei comuni maestri, Socrate. Nel Fedone, il testo dedicato all’immortalità dell’anima, dunque alla speranza, egli conversa amabilmente con i suoi amici, mentre l’effetto della cicuta inizia a serpeggiare nel corpo. Di fronte al fatto irrimediabile, al corpo senza la vita – come presso la Sala del Commiato alla Certosa di Ferrara a giugno – appare spontaneo ricordar gli uni gli altri l’esistenza del nostro caro e nello stesso tempo, negli incontri e scambi, chiacchiere e abbracci, quella di ciascuna e ciascuno di noi. In presenza della morte, si guarda alla vita. Ma vale il viceversa? Quando si ha il coraggio di parlare della morte? Socrate, nei primi passaggi del dialogo, confida che far filosofia non è altro che «un esercitarsi al morire e all’esser morti» (Fedone 64 a). «Caspita Socrate – dice l’amico Simmia con il sorriso sulle labbra – non avevo alcuna voglia di ridere, ma tu adesso mi hai proprio fatto sorridere! Infatti credo che la maggior parte della gente, sentendo queste parole nei confronti dei filosofi, le considererebbero ben dette. Del resto, anche i nostri concittadini sarebbero completamente d’accordo nel sostenere che quelli che fanno filosofia sono proprio dei moribondi e, anzi, vi aggiungerebbero di non ignorare affatto che essi sono meritevoli di subire questo destino» (Fedone 64 b).
Dalla redazione è tutto
Non si guardi a questo esercizio alla morte come a qualcosa di macabro. Se l’espressione appare tale, e dunque evochi nella “maggior parte della gente” gesti apotropaici e l’urgenza di cambiar discorso, ciò accade perché ella, la morte, la signora vestita di nulla, come diceva Gozzano, viene pensata come l’opposto della vita. Del resto, si direbbe, se c’è questa non c’è quella.
Ma Daniele Lugli era, prima di tutto, filosofo e questo ben al di là di quanto leggesse o cosa scrivesse. Lo era nella misura in cui, nel vivere con gli altri, continuamente moriva a sé stesso. Cosa significa? L’esperienza della redazione di madrugada, per Daniele, è stata (parole sue) «di tensione e familiarità», elementi essenziali per lui onde evitare «durezza e faciloneria». Guardate alla scelta dei termini: i primi due portano fuori, dritti alla relazione tra le persone; quelli da allontanare descrivono invece le trappole interiori, gli sgambetti di un io che si metta al centro di tutto. «Di solito – confidava ancora – smetto una frequentazione quando mi accorgo che mi rende più stupido e cattivo». Nessuna, nessuno potrebbe associare questi aggettivi a Daniele, se non lui stesso, in questo attento esercizio di autocritica. La fretta di imporsi, l’urgenza di avere ragione, la smania di zittire: in modo più o meno evidente sono comportamenti normali ovunque, anche in madrugada, nei cui incontri si affrontano temi appassionanti. Ma la presenza di Daniele aveva un effetto calmante: osservava i convenuti discutere, raccoglieva ogni spunto, quindi, con delicatezza e eleganza, partendo da sé stesso per andar oltre sé stesso, suggeriva la questione importante, il punto di crisi – là dove ci sia da prender posizione. Parlava di sé, ma tutte e tutti avevamo la percezione che si parlasse di noi.
Del noi, cioè di quanto c’era e c’è in comune – questo territorio aereo che si chiama “possibilità”. L’esercizio alla morte non è una meditazione solitaria vespertina di cose inevitabili, ma l’atteggiamento di ascolto di chi possa fare a meno di sé stesso per aprire a chiunque. Qui stava la sua maestria.
La pazienza del nulla
«Milad – raccontava Arturo Paoli a proposito del suo maestro dei novizi – mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti». Il primo potente travestimento nel nostro tempo è la pretesa di sapersi “buoni” perché abbiamo identificato i “cattivi”. In questa fase storica, nella quale lo spirito critico, anche quello di Macondo, viene interpellato con urgenza dai tentativi di sabotare l’uguaglianza sostanziale tra gli individui, dal diritto all’autodeterminazione degli ucraini o dei palestinesi a quelli dei migranti, delle donne, delle persone LGBTQ+, messi in discussione da questo governo ignorante – sono solo degli esempi -, la prima tentazione appare quella di ergersi-contro. Le posizioni antagoniste prolificano, le iniziative alternative occupano parchi, piazze e circoli in un’offerta quasi commerciale di soluzioni. Ma quanto è accaduto in Francia dovrebbe suggerire che l’emarginazione radicale non predilige la discussione, né l’aperitivo. Lì, un conflitto generazionale ha smascherato una ghettizzazione sistematica, con violenza.
Potremmo allora chiederci quale sia la nostra maschera, quali ingiustizie stiamo ancora coprendo con i nostri soddisfatti festival. In questione non è lo spirito delle iniziative, ma la loro moltiplicazione, perché l’astuzia del neoliberismo è quella di fare anche della contestazione un’operazione di mercato.
Per questo tornano decisive le parole di Aldo Capitini del 1967, richiamate da Daniele per il sito del Centro studi Sereno Regis: «Che cosa fare? La risposta è questa: non isolarsi, non cercare di affrontare e risolvere i problemi importanti da isolati; da isolati non si risolvono che problemi di igiene, di salute personale e, se mai, di benessere a un livello angusto. Per il problema sommo che è il potere, cioè la capacità di trasformare la società e di realizzare il permanente controllo di tutti, bisogna che l’individuo non resti solo, ma cerchi instancabilmente gli altri, e con gli altri crei modi di informazione, di controllo, di intervento». Stabilire nessi è il cuore del metodo della nonviolenza. Commenta Daniele, poco sotto: «La democrazia faticosamente conquistata appare già allora del tutto inadeguata rispetto all’esigenza di procedere in un percorso intravvisto nei momenti migliori dell’Antifascismo e della Resistenza. Procedere è sbilanciarsi, quasi cadere in avanti, ma ci si riesce solo muovendo, con attenzione, sempre la gamba che sta dietro. Il richiamo alla nonviolenza è richiamo alla tensione, all’azione, non alla passività. La nonviolenza è lotta». Questa tensione, questa lotta appaiono prima di tutto uno sforzo rivolto verso l’interno, lo spazio apparentemente vuoto, in noi stessi o nel gruppo che abbiamo scelto.
Come per Antonio
Scrive Meneghello, ricordando il suo maestro Toni Giuriolo: «L’influenza di Antonio veniva dal profondo dell’uomo, era essenzialmente un esempio», nel quale si percepiva «l’unione di cultura e vita morale (…). La cultura in questo senso è il principio informante del carattere. Non si può “insegnarla” come una materia di studio.
Ha un’autorevolezza intrinseca, in cui non c’entrano le doti appariscenti o alcuna forma di prestigio esteriore». E forse sta qui, uno dei principali lasciti di Daniele: non aver bisogno di essere riconosciuto, di riconoscimenti. Prima che la pioggia, impetuosa, disperdesse le persone accorse al commiato, l’aria che si respirava era di piena, vivida, colorata riconoscenza. Chi non fosse ferrarese, o emiliano, e quindi non conoscesse la provenienza delle donne e degli uomini che hanno affollato l’interno e l’esterno della Sala, poteva restare colpito dalla generale serenità che evidentemente le reti intrecciate anche da Daniele riescono a conservare. Una serenità non distinguibile dalla libertà. Ancora Meneghello: «“Libero” come attributo delle cose umane credo fosse per lui indistinguibile da “vero”, “reale”: tutto ciò che si genera di fatto negli animi degli uomini liberi; tutto ciò che sono capaci di creare. Una vita individuale, una società hanno senso in quanto si fondano su questa libertà: opporla a qualunque altra ispirazione morale e politica della comunità non è solo sviante, è mostruoso. Senza di essa non c’è alcuna società (come non c’è alcuna vita privata) che valga la pena di avere» (Fiori italiani). Valeva per Giuriolo, come per Daniele.
Ninna nanna
Raccogliere quanto di buono è stato, significa riconoscere che esso oltrepassa i nostri limiti mortali. Qui sta l’ispirazione laica della spiritualità di Macondo. Per nutrirla sarà necessario tornare agli scritti di Daniele o da lui suggeriti, perché nonostante tutto «chi è interessato sa come trovarmi». «Allora Socrate – disse l’amico Cebete sorridendo – prova a convincerci come se avessimo effettivamente paura, e anzi, come non fossimo noi ad aver paura, ma piuttosto quasi vi fosse un bambino terrorizzato da queste cose.
Cerca di dissuaderlo dal temere la morte come uno spauracchio».
«Ma questo bambino, rispose Socrate, bisogna incantarlo ogni giorno, finché non siate riusciti ad ammansirlo del tutto» (Fedone 77 c).