Glossario minimo per la vita nei borghi
Comunanze
Quando studiavo diritto alle superiori, ero sempre colpito dal termine “usi e consuetudini” .
Era chiaro che si trattasse di una fattispecie giuridica del tutto anomala, un po’ perché la prof sembrava esitare nello spiegarla, un po’ perché il codice pareva chinare il capo di fronte a un diritto antico, che non poteva far altro che riconoscere e onorare .
Oggi si parla molto di commons, intendendo con questa espressione le nuove forme di proprietà condivisa che si vengono a creare in seguito a modalità collaborative di vivere, lavorare, studiare, produrre. Il fatto che in italiano il termine si traduca in beni comuni, dice molto. C’è stato un tempo, già a partire dal IV secolo d.C., in cui la crescente privatizzazione di boschi e pascoli condusse all’istituzione dei communia, cioè di terreni sui quali era riconosciuto il diritto di pascolatico e legnatico delle comunità locali. C’è stato poi un tempo lungo, dopo il Mille, in cui nella penisola italiana si erano andati formando piccoli centri sempre più autonomi rispetto all’Impero. L’epoca dei Comuni, appunto. Molti usi e consuetudini si consolidano in questo periodo, che ha forse nel XIII secolo la sua fase cruciale. Diritti di passaggio, di pascolatico, di legnatico, di erbatico, di abbeverata, di vagantino… segnano la supremazia di ciò che è “comune” su ciò che potrei essere tentato di pretendere come “mio” .
Leggendo Minima ruralia di Massimo Angelini (Pentàgora, 2013) ritroviamo tutto questo e molto di più nelle antiche forme di “comunanza”. «Comunanze sono gli spazi materiali, giuridici e simbolici delle comunità; sono gli usi civici e i saperi condivisi, danno forma a molti linguaggi, anche attraverso l’occupazione e l’uso dello spazio, i gesti e i comportamenti noti; sono le parole e le espressioni della lingua domestica e colloquiale. I luoghi comuni, per loro natura, sono indisponibili, inalienabili, imprescrittibili, non privatizzabili e non assogettabili a regolamentazioni che non siano generate dalle stesse comunità locali che ne hanno la piena titolarità. In questo respiro, la parola comunità non ha valore demografico né amministrativo. In questo respiro, la comunità locale è la compresenza di chi ha abitato un luogo, di chi lo abita e di chi ne è ospite (e aggiungo: e di chi lo abiterà)» .
Abitare un paese, un borgo, non è solo acquistare casa fuori città. Che lo si ammetta o no, non è mai un’azione esclusivamente individuale. È infatti accettare di inserirsi in un flusso, in una staffetta che chiede di percorrere una tappa e di lasciare poi il testimone a qualcun altro. Forse è questo che intimorisce e affascina nell’andare a vivere in un borgo. Il diritto tutela, certo, la nostra nuova proprietà, la nostra privacy, ma nulla ci tutela dalla necessità di dialogare con chi ci ha preceduto, con chi ci vive accanto, con chi prenderà il nostro posto un giorno. E d’altronde, è possibile vivere isolati senza alcuna dimensione collettiva? Come faremo quando saremo nel bisogno?
Restanze
Oltre a coloro che vanno a vivere in un borgo, ci sono quelli che decidono di restarci, magari dopo aver viaggiato per anni in Italia o all’estero .
Messo a tema da Vito Teti nel suo Pietre di pane. Un’antropologia del restare (Quodlibet, 2011), il concetto di restanza è pregno .
«Restanza denota non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere muti e rassegnati. Indica, al contrario, un movimento, una tensione, un’attenzione. […] Significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. Volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie. Non sono concessi autocompiacimento, autoesaltazione ma neppure afflizione» .
Restanza è l’atto di chi resta in un luogo non per rassegnazione, per mancanza di alternative o di coraggio. È l’atto di chi, restando, trova nuove strade per far sì che il passato di un luogo e di una comunità entri in dialogo col presente, fecondandolo. È un atto generativo, che ovviamente non è esente dal dissipare energie, dallo spreco, espediente ben noto alla vita. Del resto, quanti milioni di spermatozoi sono necessari per tentare (tentare!) di fecondare un solo ovulo? Restanza è allora forza creativa, che immagina scenari a partire dal passato. Restare e basta, non basta. Quanti restati (participio passato) sono intristiti, talvolta incattiviti con la terra madre, con i vicini di casa, con la storia del luogo? Meglio allora essere restanti (participio presente), in movimento, creativi .
Usanze
Viste con tecnologica superiorità, le usanze sono oggi talvolta ridotte a folclore. Sono forse interessanti da rievocare, ma raramente incidono nella vita quotidiana dei più giovani. Molti borghi ne mantengono un uso promozionale, convogliandole in sagre e rievocazioni storiche. Per altri, invece, esse sono ancora un linguaggio, una modalità di comunicazione alternativa. Quello che rischiamo di dimenticare, infatti, è che le usanze spesso nascono per preservare la vita possibile in un luogo, soprattutto quando questo è isolato e altrimenti votato all’abbandono. Hanno cioè un potere di codificare e decodificare azioni collettive e perciò di consolidare una comunità .
In genere, però, un cambiamento si rende comunque necessario, per evitare sia gli effetti di una eccessiva conservazione che quelli di uno spasmodico progresso. Come ci ricorda Jean-François Draperi in Rendere possibile un altro mondo (Erga, 2014), «mentre rispettando usi e costumi degli avi le società tradizionali salvaguardavano il mondo “così com’era”, la società moderna, ossessionata dalla crescita e dal consumo, si rivela incapace di dominare il proprio impatto sulla natura». Siamo quindi condannati ad alternare conservatorismo sterile a progressismo predatorio? Anche il recupero di antiche usanze a scopo commerciale può essere predatorio. Mentre non tutto il progresso lo è .
Questo dilemma è ben evidenziato da Luigino Bruni, autore di Capitalismo meridiano (Il Mulino, 2022). Analizzando il francescanesimo delle origini, l’autore si chiede come fosse possibile che frati mendicanti ai quali non era consentito toccare fisicamente una moneta potessero teorizzare di economia, vivere nelle città tra i mercanti, fondare Monti di Pietà. «La proprietà privata […] ha la sua ragion d’essere nella protezione dei deboli dalla prepotenza dei forti che tenderebbe ad accrescere a dismisura il loro “mio” senza riconoscere il “tuo”. […] I grandi teologi medievali ci ricordano che il nostro destino, anche economico, è la comunione .
Noi non riusciamo a essere all’altezza della nostra vocazione, ci accontentiamo dell’economia del “mio” e del “tuo”, dimenticando che questi aggettivi possessivi poggiano su un noi più profondo» .
Per questo nella Fratelli tutti papa Francesco afferma che «il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati» .
Le usanze, quando vengono davvero comprese e valorizzate, possono diventare generative di prassi comunitarie e far nascere su base locale una vera e propria forma di economia sociale, intesa come un progetto immaginario di società alternativa, per usare le parole di Henri Desroche. Lo stesso Draperi è consapevole che il termine economia sociale «può sembrare troppo ambizioso per progetti più modesti e mirati […], ma non lo è nella misura in cui la somma di queste azioni modeste e mirate può cambiare le relazioni tra la produzione e il consumo, tra l’economia e la salute, tra la società e lo scambio. Frequentemente, queste azioni modeste e mirate sono il substrato di un cambiamento sociale che le supera e che dà loro senso. L’associazione, la piccola cooperativa, il gruppo solidale, il dibattito tra amici, ecc., sono altrettanti abbozzi di un cambiamento globale immaginato, progettato, sgrezzato, già in corso d’opera…» .
Ecco allora che le usanze, anziché ridursi a rimasugli bucolici, possono riportarci alla necessità di trovare forme di convivenza possibile e aprirci a forme nuove di creatività economica, che renda davvero possibile la vita nei borghi. Forse avverando la massima attribuita a Henri de Saint-Simon: «Voi crederete di avere immaginazione. In realtà non avrete che reminiscenza» .