Cultura della valutazione come conoscenza del reale
Mi trovavo a una cena con due medici, uniti da stima e affetto di lunga durata. La discussione verteva sull’opportunità o meno di impiegare negli ospedali dei criteri di valutazione della produttività.
«È inaccettabile!» – si stizziva il primo, da poco in pensione – «Bisogna dedicare a ogni paziente il tempo che occorre, non si può concepire che l’azienda sanitaria prescriva la durata di una visita o di un intervento chirurgico. Non si può lavorare con l’orologio fisso in testa».
«Non sono d’accordo» – rispondeva il secondo, un chirurgo ancora in servizio e con, tra i suoi compiti, anche l’organizzazione del lavoro del suo reparto – «È vero che la prestazione sanitaria deve essere commisurata ai bisogni del paziente, ma si deve poter dire prima, sulla base dell’esperienza, quanto tempo ci vorrà per un’appendicite o per un intervento a cuore aperto, altrimenti è impossibile strutturare il lavoro delle sale operatorie. Questo non esclude che in caso di necessità ci si debba muovere secondo i bisogni del malato, ma sarà l’eccezione e dovrà essere documentata. Un intervento che dura il triplo per salvare un paziente è indubbiamente un buon intervento, si fa se occorre e lo si può spiegare».
La conversazione si è protratta a lungo intorno a questi concetti essenziali e, non è raro, sentivo di essere d’accordo con entrambi. Intanto riflettevo che un discorso simile si adatta a qualsiasi ambito lavorativo: quanto tempo dedicare agli Etruschi, ad aggiustare un rubinetto che perde, a un’udienza per separazione in tribunale… e via e via, secondo i mestieri. Certo, era decisamente diverso, per me profana, sentirlo applicare a interventi da cui può dipendere la vita o la morte di una persona, ma la sostanza rimane la stessa: la prevedibilità è uno strumento di organizzazione.
Da qui – è il passo successivo – la capacità di rientrare in quei criteri organizzativi, o di perfezionarli, come elemento su cui valutare il lavoro del professionista e a cui far corrispondere un premio.
Mi sto attenendo a una valutazione delle prestazioni, vale a dire incentrata sulla quantità. La qualità non è poca cosa, in medicina e in ogni altro settore. Cento operazioni sbagliate non sarebbero un gran risultato. Anche la qualità bisognerebbe valutarla.
Ma poi: bisognerebbe?
Il metodo MmE e la valutazione delle persone
Provo per un attimo a immaginare che la valutazione sparisca dai nostri processi mentali. Avverto un senso di spaesamento. Forgiati dai voti della scuola – ma spesso prima ancora, dai commenti degli adulti rivolti a noi bambini – impariamo molto presto a esprimere giudizi che si riflettono e ci orientano in molteplici attività: organizzare, semplificare, mettere in scala, riunire il simile, stabilire rapporti di gerarchia, accantonare ciò che appare poco adatto o poco importante per concentrarsi sul resto.
Pat Patfoort, antropologa studiosa dei conflitti, dalle liti familiari alle guerre etniche, su questo ha impostato tutto il suo metodo MmE, maggiore minore equivalente. «Noi tutti siamo diversi» – spiega Pat nelle sue lezioni – «purtroppo però veniamo educati a leggere la diversità introducendo sempre un elemento di valutazione, a cercare un meglio e un peggio. Facciamo fatica a concepire che entità differenti abbiano lo stesso valore».
Come non pensare alla nostra Costituzione? «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3). Diversi ma con pari dignità, riprendendo Pat Patfoort.
Non si possono valutare le persone. Io questo l’ho imparato con i bambini, consolidato insieme agli adolescenti e strutturato in lunghe formazioni sull’ascolto non giudicante di esito più o meno efficace secondo i ruoli e le evenienze, ma prima sono venuti i bambini. Entravo in classi elementari per i laboratori di narrazione collettiva e restavo meravigliata dalla loro bellezza, la ritrovavo in ogni bambino e in ogni bambina nel proprio modo unico e irripetibile di esprimersi.
Per quanto la mia esperienza di alunna mi avesse predisposto – anche fuori dalla scuola – a cercare il meglio, dunque a valutare, con stupore ho realizzato che mai mi sarei sognata di stabilire tra i bambini scale o gerarchie. Arrivava prima l’incanto.
La valutazione ci aiuta, forse è inevitabile, ma non dovrebbe essere applicata alle persone. Mi pare di essere arrivata fin qui. Ma poi: dipende da cosa ce ne facciamo. Nella scuola, se è intesa come verifica dell’apprendimento, è utile al docente per capire quali argomenti sono stati assimilati e quali dovranno essere ripresi magari con altre modalità; è una gabbia se classifica le persone, se le appiattisce sul voto, se non dichiara in premessa la propria parzialità (qui valuto la tua capacità mnemonica, non dico niente sulla tua manualità, razionalità, empatia…). È una gabbia se, invece di intenderla con riferimento a una espressione del sé, o a una singola prestazione, viene estesa al valore dell’individuo. L’ansia sempre più diffusa in questa generazione di studenti, in relazione alla scuola, mi chiedo quanto non si generi nello scontro tra un’autostima a volte persino gonfiata ma con radici troppo corte – i figli unici sono spesso geniali, se non altro perché sono i primi e i soli bambini con cui quei genitori hanno quotidianamente a che fare – e un approccio alla valutazione che in tanti docenti è poco esplicitato e lascia ampio spazio alle interpretazioni, facilmente le più accanite e tempestose. «Il prof ce l’ha con me» è una versione rancorosa e meno colpevolizzante di «Non sono capace», poco utile, o di «Non ho ancora capito», più utile perché non schiaccia e descrive un processo in divenire. Ragionare su quale messaggio i nostri gesti impliciti – di insegnanti, educatori, genitori – trasmettono ai più giovani è qualcosa su cui fare, sì, valutazione, personalissima e periodica, o quando accade qualcosa che non capiamo. Una chiusura apparentemente immotivata, una reazione fuori controllo.
La valutazione della società
Se di valutazione sulle persone se ne vede fin troppa, la valutazione come strumento di ricerca e di conoscenza della società mi pare scarseggi.
Ero alla prima esperienza di lavoro in un servizio pubblico e il direttore ci abituava a valutare i progetti che mettevamo in piedi registrando quello che facevamo, il numero di persone coinvolte, le copie distribuite di una certa pubblicazione… ma rilevando, se possibile, l’effetto prodotto, anche tenendo conto del fatto che il nostro intervento non si svolgeva in vitro, ma in un contesto di relazioni nel quale accadevano anche altre cose, si riversavano messaggi e influenze al di fuori del nostro controllo. Ma il mio responsabile era bravo e lungimirante, pochi altri che ho conosciuto hanno la stessa attenzione.
È una delle ragioni per cui sembra difficile inserire i progetti educativi o nel sociale made in Italy nei programmi europei, dove la valutazione è un passaggio ineludibile.
Una cultura della valutazione letta in questo senso, come conoscenza del reale che, se ripetuta a cadenze regolari, aiuta anche a valutare l’andamento di un fenomeno sociale, manca al nostro Paese e ce ne accorgiamo a ogni passo. Di più lo vedo nei settori di cui mi occupo, quando mi accorgo che non ci sono banche dati affidabili e percorsi di rilevazione periodici su temi fondamentali per il nostro vivere insieme.
Mi si chiede se la violenza in adolescenza è davvero in aumento e prendo atto che non lo so, per saperlo bisognerebbe misurarla nel tempo con strumenti omogenei, scientificamente attendibili, e allora lo potremmo dire davvero nel confronto tra un prima e un dopo. Non sappiamo molto di più sulle crisi familiari, sui maltrattamenti all’infanzia, sui bambini spettatori di violenza, sull’accoglienza dei minori migranti che arrivano soli in Italia, sulla buona riuscita di percorsi impegnativi che accompagnano le persone nell’apprendimento o nel cambiamento personale.
Sulla violenza contro le donne manca una visione complessiva mentre, da pochi anni e per legge, l’Istat ha tra i suoi impegni quello di rilevare il fenomeno, cosa che fa riunendo al meglio i dati che riceve da tribunali, centri antiviolenza, forze dell’ordine, presidi sanitari… che li raccolgono ognuno a modo proprio e senza dialogare tra loro, ma già il fatto che i dati ci siano rappresenta un passo avanti rispetto anche solo a cinque anni fa.
Aspettarsi che il nostro Paese sia attento a monitorare, valutare, confrontare, basare le proprie scelte su dati certi sembra una pretesa utopistica mentre molto di più governano l’emergenza, l’impatto emotivo, i titoli a sei colonne o i social. Immaginare che l’opinione pubblica lo pretenda è un atto di fiducia che non mi sento di fare. Una speranza però io ce l’ho: che un buon uso della razionalità e dell’intelligenza si affermi anche dalle nostre parti, per un disegno più equo, più fondato e più lungimirante della società in cui viviamo.