Vale la presenza. Verso un curricolo risonante
Da più di due anni il nostro modo di vivere le relazioni è stato condizionato dall’evento pandemico, inaspettato e per certi aspetti traumatico. Il distanziamento sociale ci ha però permesso di entrare in contatto con elementi fondativi del vivere sociale e in particolare della relazione educativa. Uno di questi è quello della presenza, più precisamente dell’essere presenti mentre ci si relaziona con un altro essere umano.
Il distanziamento sociale ha obiettivamente limitato la presenza e la vicinanza fisica, ma è pur vero che, anche attraverso forme nuove di comunicazione mediate dalle nuove tecnologie, ha permesso di mantenere e talvolta di rafforzare i legami. Emblematico il caso della scuola che ha dovuto riconoscere che l’allievo o il docente, connessi, si siano sentiti, in alcuni casi, più vicini e performativi lì, “a distanza”, di quanto non erano nella “vicinanza” della classe.
Abbiamo così imparato a non considerare apertura e chiusura, presenza e assenza, vicinanza e lontananza come degli assoluti. L’essere presenti, in particolare, si è rivelato essere più una qualità interna, una disposizione personale verso l’altra persona, che una condizione determinata dalla vicinanza fisica.
Essere presenti. Essere ricettivi
Che cosa significa essere presenti? L’interrogativo è decisivo soprattutto per chi si prende cura degli altri o svolge una professione a servizio delle persone. Perché la presenza è il predittore più forte di come le persone reagiscono a chi entra in contatto con loro? È possibile essere presenti senza essere nello spazio fisico dell’altro ed è possibile essere vicini all’altro senza essere presenti? Come accordare questi interrogativi con l’esigenza di ripensare i curricoli scolastici?.
La presenza ha a che fare con la qualità della nostra vita mentale. Se la mente è quel processo regolativo dei flussi di energia e informazioni che caratterizzano la nostra esperienza quotidiana (Siegel, 2012) la consapevolezza di questi flussi, l’abilità di mantenerli in equilibrio, rappresenterebbero le condizioni necessarie alla presenza e alla salute della mente più in generale. Del resto, prendersi cura della propria vita interiore, della propria mente e del proprio sé è pregiudiziale per prendersi cura degli altri.
Essere presenti significa, anzitutto, essere ricettivi ed entrare in risonanza con gli altri. Essere ricettivi è un’esperienza di libertà, la libertà di immaginare possibilità infinite, di aprirsi alla realtà che ci incontra, ci resiste, ci ispira. Molto più spesso è l’aspettativa che abbiamo verso ciò che incontriamo, il nostro giudizio aprioristico, la nostra chiusura, a impedirci l’esperienza dell’essere realmente presenti. La nostra mente quando non è ricettiva è reattiva, reagisce impulsivamente agli stimoli, è governata dall’esterno e perde il suo equilibrio. Perché questo accade?.
Perché la presenza ha bisogno che la mente garantisca un senso di sicurezza. Possiamo perdere questo senso di sicurezza quando percepiamo gli stimoli che i nostri organi di senso raccolgono come minacciosi. Il cervello monitora costantemente l’ambiente esterno, lo scandaglia alla ricerca di segnali di pericolo. A volte ci mettiamo in uno stato di allerta, pronti a fuggire, ad aggredire o a irrigidirci.
Quando percepiamo una sensazione di pericolo non possiamo attivare quella che Porges (2014) chiama il sistema dell’impegno sociale. Invece di essere presenti siamo distanti, soli e paralizzati. La nostra mente non è pacificata, non è recettiva e quando siamo reattivi la presenza è bloccata. Per realizzare la presenza che porta con sé flessibilità, capacità di adattamento, stabilità, energia, abbiamo bisogno di imparare a sintonizzarci con l’esperienza dell’altro.
Si intuisce quanto questo sia importante per la progettazione degli ambienti di apprendimento, che devono essere prima di tutto ambienti “salutari”. Se la salute è infatti legata alla capacità di essere presenti e alla qualità della nostra vita mentale, possiamo ipotizzare che alcune forme del disagio contemporaneo abbiano a che fare con il problema della presenza.
Perché facciamo fatica a essere realmente presenti? Secondo molti osservatori (Rosa, 2015) è qualcosa che ha a che fare con la velocizzazione della vita sociale che impatta nelle esistenze dei singoli trasformando la vita materiale, sociale e spirituale. L’accelerazione della vita sociale sta producendo nuove forme di alienazione sconosciute fino a qualche tempo fa e che colorano il disagio delle persone con tinte del tutto originali (secondo Rosa, ci sono tre categorie differenti di accelerazione: quella tecnologica, quella relativa ai mutamenti sociali e quella che impatta sul ritmo di vita.
Tutte stanno condizionando anche la vita degli studenti).
La risonanza è la soluzione
La salute in relazione ai processi di accelerazione è un tema generatore estremamente fecondo, perché costringe alla ricerca di significati nuovi nel curricolo scolastico. In particolare perché ci permette di incontrare la nozione di risonanza e ci offre dei criteri per scegliere i nuclei disciplinari. Quanta accelerazione siamo in grado di sostenere come individui? Che impatto ha nel nostro modo di essere presenti? Qual è l’impatto che la stabilizzazione dinamica (tenersi in equilibrio senza fermarsi mai), come la chiama Rosa, ha nel nostro modo di vivere il mondo? La risposta appare scontata: ci relazioniamo al mondo nella modalità dell’indifferenza o della repulsione. La terza modalità, quella della risonanza, è quella che dobbiamo recuperare e potenziare.
Utili spunti per la riflessione sulla risonanza come antidoto all’incapacità di essere presenti nelle relazioni li propone Rosa nel suo ultimo lavoro Pedagogia della risonanza: «La risonanza è l’unione di due entità indipendenti all’interno di un insieme funzionale. Entriamo in risonanza nel momento in cui ci sintonizziamo reciprocamente fino a trasformarci. Nel momento in cui due corde risuonano il suono di ciascuna è modulato dall’influenza dell’altro. Siamo presenti/vicini all’altra persona nel momento in cui ci sintonizziamo su di lei, veniamo cambiati da questa presenza e questo nostro essere presenti cambia la persona con la quale ci sintonizziamo. La risonanza è un’esperienza umana fondamentale e ha nell’alienazione il suo contrario.
Non è tanto la distanza, il distanziamento sociale a minare le basi del legame sociale, quanto la mancanza di relazioni risonanti».
La risonanza è quindi una forma di relazione bidirezionale, in cui il soggetto e il mondo si lasciano reciprocamente trasformare. Presuppone un interesse intrinseco alla relazione da entrambi i poli. Non si tratta di una relazione in cui uno risponde all’altro come se fosse la sua eco, ma una relazione tra entità distinte, indipendenti, compatte e allo stesso tempo aperte per lasciarsi toccare. Per essere in risonanza bisogna esporsi all’incertezza, all’indisponibilità, all’imprevisto. Anche l’eccesso di risonanza potrebbe risolversi in una forma di alienazione.
La caratteristica più importante di una relazione risonante riguarda il fatto che la porzione di mondo con la quale si entra in risonanza (grazie a degli assi di risonanza, direbbe Rosa) deve rappresentare per me una fonte di valore, deve essere ricca di significato. L’essere presenti, in definitiva, si esprime come disposizione alla risonanza, come atteggiamento positivo di fronte al mondo, a ritagli di mondo, dei quali ci si appropria lasciandosi trasformare e trasformandoli. Quando si stabilisce una relazione di risonanza la corda si tende, gli occhi brillano.
Risonanza e curricolo
Un apprendimento efficace si realizza in un clima che mi permette di stabilire una relazione con il mondo. Ma non solo una relazione di appropriazione, anche di trasformazione. Rosa la chiama appropriazione trasformatrice: «Appropriazione trasformativa significa far propria una cosa al punto che non solo mi appartiene, ma mi tocca sul piano esistenziale ed è persino in grado, in linea di principio, di trasformarmi. Non basta acquisire i contenuti, le cose, dominarle, gestirle. Solo se le faccio parlare posso farle mie, trasformandomi» (Rosa, 2020).
Pensare un curricolo nell’ottica della pedagogia della risonanza significa allora favorire un movimento che va dall’appropriazione di contenuti, competenze, informazioni strumentalmente impiegabili a un’appropriazione trasformativa per cui la relazione con quel ritaglio di mondo (contenuto da assimilare) mi trasforma, perché quel mondo mi parla, ha a che fare con me.
La questione cruciale diventa la seguente: a quali condizioni un curricolo può diventare uno spazio risonante? Da un lato è necessario che il clima favorisca la disposizione alla risonanza, dall’altro è necessario che i contenuti/competenze siano tali da essere percepiti come assi di risonanza, cioè potenzialmente capaci di “toccare” gli studenti ed “essere toccati” da loro. Quali caratteristiche deve avere il contenuto per essere capace di generare una relazione responsiva?.
Quali risorse cognitive e affettive deve mobilitare perché la comprensione possa dirsi profonda? Rispondere a questi interrogativi significa incontrare a un medesimo crocevia orientamenti pedagogici, approcci metodologici ed epistemologici differenti ma tutti riconoscibili per un comune denominatore: la porzione di realtà risulta significativa se possiede le caratteristiche di un tema generatore. Un tema generatore (Freire, 1967) rappresenta un contenuto che sgorga da un problema effettivo; esso non può essere imposto o proposto ma scoperto all’interno dell’universo tematico della propria epoca, che è tale perché è sempre legato a una situazione, problema, ne richiama altri e invita al dialogo euristico. Il tema generatore, e la ricerca tematica di cui è espressione, può divenire il punto di incontro di una duplice esigenza pedagogica: quella della progettazione a ritroso che muove dalle «domande come vie di accesso alla comprensione» e quella della pedagogia della risonanza che seleziona nuclei disciplinari capaci di entrare in risonanza con gli studenti.
Michele Visentin