Ragioni della pace, ragioni della guerra
C’è un certo imbarazzo nel parlare di quel che sta succedendo a est. C’è un certo scoramento nel constatare che, accanto al conflitto militare, è in corso una guerra a livello mediatico: una guerra nella quale la prima vittima è la verità, dove la propaganda, la disinformazione, la menzogna e le fake news prosperano.
C’è un po’ di delusione nel vedere ripetersi un copione che è stato usato nei conflitti che hanno coinvolto l’occidente: iper-semplificazione dei fatti, ridotti allo scontro bene (noi) male (loro), costruzione della figura del nemico come dittatore, attribuzione al nemico di ogni responsabilità e di ogni crimine. C’è frustrazione nel vedere ripetersi in Europa quel che era successo nella ex Jugoslavia e, su scala più ampia e drammatica, in Iraq, in Afghanistan, in Libia, in Siria.
Nulla di strano, nulla di nuovo purtroppo: «La storia è buona maestra ma non ha allievi».
La paura diffusa tra la popolazione
L’imbarazzo aumenta e diventa disillusione nel constatare che questa guerra prolunga il periodo di paura e di odio generato dalla pandemia e dalla sua gestione, proprio quando sembrava che questa emergenza fosse finalmente finita. Da oltre due anni, il quadro di paura diffuso tra la popolazione è diventato strumento di governo e, oggi, costituisce la precondizione assolutamente necessaria per sostenere e legittimare la violenza e la guerra.
I media hanno avuto e hanno una grande responsabilità nella creazione di tale contesto negativo; anche ognuno di noi ha una precisa responsabilità, gode di uno spazio di libertà che consente di scegliere se alimentare le ragioni della guerra o per sostenere quelle della pace. Accettare pedissequamente la narrazione mainstream e quindi prendere partito per uno dei contendenti è il primo passo attraverso il quale ognuno di noi sostiene, piaccia o meno, il conflitto.
Dopo il crollo dell’URSS, speranze e illusioni Per capire meglio quel che sta succedendo bisogna almeno tornare al dicembre 1991, data che segna la fine ufficiale dell’URSS dopo il crollo del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e lo scioglimento di fatto del Patto di Varsavia (1991): glasnost’ e perestrojka di Gorbaciov sembravano aprire una stagione nuova, l’uscita dalla guerra fredda, la rinascita dell’Europa e un nuovo orizzonte di pace e collaborazione. Erano i tempi in cui sembrava possibile, agli spiriti più visionari, una grande Europa libera da Gibilterra agli Urali e oltre. Non è andata affatto così. Il vecchio e corrotto sistema sovietico è crollato prima che il nuovo cominciasse a funzionare e la crisi sociale si è fatta ancora più acuta nella misura in cui i cambiamenti radicali in un Paese così vasto non potevano e non possono passare in modo indolore, senza difficoltà e sconvolgimenti che si ripercuotono a livello globale.
Con la crisi del sistema statale centralizzato, della sua burocrazia e dell’ideologia che ne era il cemento, è venuto meno il collante che teneva insieme le tante etnie e le innumerevoli repubbliche che costituivano il sistema comunista sovietico che veniva presentato come un grande monolite, nascondendone la complicata realtà multietnica.
All’interno di molte di esse, sono scoppiati drammatici e sanguinosissimi conflitti etnici e religiosi, abilmente fomentati dall’esterno, fino alle più recenti rivoluzioni colorate che hanno portato alla sostituzione dei regimi amici di Mosca con regimi amici degli USA, come successo anche in Ucraina prima con la “rivoluzione” arancione del 2004 e poi con la “rivoluzione” di Maidan del 2014.
L’occasione persa dell’Europa
Con il crollo del muro di Berlino e il ritiro dei sovietici dalla Germania e dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’intero equilibrio scaturito dalla seconda guerra mondiale è andato in crisi senza che il processo fosse governato come sarebbe stato necessario. Alla Russia è rimasto però un arsenale atomico enorme, obsoleto forse e quindi ancor più pericoloso.
A fronte di questo il sistema antagonista, la NATO, non si è affatto sciolto ma, anzi, ha iniziato a espandersi verso est incorporando paesi un tempo satelliti di Mosca e, infine, cercando di mettere le mani sull’Ucraina. Un passaggio, questo, incauto e pericolosissimo che nessun paese con rinascenti ambizioni di potenza (tale è la Russia di Putin) poteva accettare impunemente.
In questo lungo processo, oggi sfociato in una guerra largamente prevedibile, l’Europa non ha saputo agire, dimostrando la sua assoluta inconsistenza politica e culturale, malgrado l’entrata nel sistema dei paesi dell’est. Anche qui nulla di nuovo, se si accetta di leggere quel che sta succedendo nella logica della geo-politica e delle strategie messe in campo dai poteri che si muovono su scala globale.
I valori del mercato e le prospettive europee
La rottura dell’equilibrio geopolitico che ha caratterizzato la seconda parte del secolo scorso ha anticipato la distruzione di ogni idea non solo comunista, ma anche socialista e la sua sostituzione con i valori del mercato, dominati dalla finanza e dalle multinazionali. La parola competizione ha sostituito quella di cooperazione; il consumo ha sostituito l’etica della cittadinanza; il capitale ha surclassato il lavoro, le macchine intelligenti sostituiscono l’uomo. Il bene privato ha surrogato il bene pubblico e il bene comune.
Gli Stati sono stati indeboliti, cedendo grandi quote di sovranità e sono ormai tutti legati alla logica di funzionamento della finanza. Il crollo del capitalismo di Stato ha lasciato mano libera al capitalismo di impronta neo-liberista ovvero a una élite finanziaria che ha iniziato a espandere il suo potere su tutto il pianeta. Il dominio assoluto del mercato è diventato la cifra distintiva di una globalizzazione a senso unico.
È venuta meno la speranza di costruire una grande Europa comprendente tutti gli ex satelliti sovietici e la Russia stessa insieme all’Ucraina.
Un blocco pacificato che a livello geopolitico sarebbe diventato in grado di competere a livello globale nel giro di pochi decenni. A questa utopia politica si è preferita una tecnocrazia burocratica basata esclusivamente sull’economia, sulla finanza e sul diritto. È questo il Nuovo Ordine Mondiale che ha sostituito quello bipolare nato da Jalta (curioso: si trova in Crimea) e dalla seconda guerra mondiale. Questa guerra non è la fine della globalizzazione perseguita negli ultimi 30 anni, bensì al contrario, è la globalizzazione mercatistica fallita a livello globale che è la causa della guerra in Ucraina.
Come spettatori attoniti sotto la tenda del circo
Di tutto questo noi siamo spettatori, spesse volte spaventati e rancorosi, immersi in un flusso di informazioni alle quali diamo senso in base al pregiudizio e quasi sempre in assenza di riferimenti concettuali adeguati, in grado di collocare il fatto e la narrazione complessiva in una prospettiva più ampia consapevole della propaganda e connessa alla storia e alla geopolitica. Siamo spettatori indignati nella misura in cui l’agenda dei media sottopone alla nostra attenzione la guerra in Ucraina, tacendo su tutte le altre guerre che proprio adesso insanguinano il mondo.
Siamo spettatori inconsapevoli nella misura in cui ignoriamo che in un contesto di guerra le fonti di informazione sono sempre tendenzialmente censurate e l’informazione è controllata, filtrata e diffusa dai governi, dai militari e dall’intelligence. Siamo spettatori incoscienti nella misura in cui ignoriamo, accettiamo e diffondiamo notizie la cui finalità non è quella di informare imparzialmente, ma di creare emozioni e sentimenti sempre più estremi ma capaci di catturare l’attenzione e di orientare le opinioni.
Uno spiraglio di speranza
Potrebbe sembrare un quadro deprimente ma proprio qui risiede l’opportunità di cambiamento: infatti, in quel che resta della nostra democrazia, ai potenti e ai signori della guerra serve ancora il consenso e solo noi cittadini possiamo concederlo.
In un contesto di conflitto aperto ognuno di noi diventa, nel suo piccolo, protagonista della guerra, di questa guerra che da oltre un mese sta al centro della cronaca e dello spettacolo. La guerra ha assoluto bisogno di fiancheggiatori che ne garantiscano la legittimazione culturale: nessuna guerra che cada sotto i riflettori dei media sarebbe infatti possibile e potrebbe durare a lungo senza questo tipo di appoggio diffuso.
Quel che resta da fare
Ma se questo è vero, è anche vero che si possono sostenere le ragioni della pace. Lo si fa rifiutando la contrapposizione manichea tra bene e male, evitando ogni azione che possa contribuire a causare ulteriore paura e alimentare l’odio. Tutte le persone che si agitano e prendono partito e odiano e diffondono paura sono perfettamente funzionali allo scontro, sostengono gli interessi dei poteri egemoni che lo vogliono e ne traggono profitto.
La logica della pace può anche fare a meno dei fatti spacciati per veri. La pace ha una sola bandiera ed è di colore bianco; non è finalizzata a difendere una parte e a criminalizzare l’altra, rifiuta di agire creando odio ulteriore: mira semplicemente a ridurre il conflitto, a favorire le trattative, a tutelare e aiutare le vittime civili che accompagnano ogni conflitto. Il pensiero di pace si sviluppa a un livello superiore rispetto alla logica del potere e deve guardare al dopo: non solo a pacificare adesso, ma a costruire un futuro generativo di pace. Solo dopo, a pace fatta, si potrà mettere sulla bandiera bianca ogni altro colore. Esattamente quello che oggi non sta succedendo ma che deve essere fatto.
Poco più di 100 anni fa (1917), la rivoluzione russa gettava le basi di un secolo di guerre e di scontro ideologico. Oggi, dai medesimi luoghi, potrebbe sorgere l’alba di un Nuovo Mondo oppure concludersi definitivamente e drammaticamente la parabola del vecchio mondo che conosciamo.