Prefazione

Chi viaggia senza incontrare l’altro,
non viaggia, si sposta.
Alexandra David-Néel

Mi sono proposto di recuperare le pillole che Giuseppe scriveva in Facebook nell’ultimo periodo della sua vita. Mi dispiaceva l’idea che le parole ultime che ci ha offerto venissero in qualche modo dimenticate o cancellate.

Si era cucito addosso l’appellativo di viandante, termine che racchiudeva il suo senso di felicità. Il suo andare aveva un senso, glielo aveva dato l’America del Sud, soprattutto una bambina di nove anni, lo raccontava spesso, intravista presso l’associazione São Martinho di Rio de Janeiro. Quella bambina, che lo sfidava con lo sguardo, aveva atteso il momento in cui si era trovato solo, si era avvicinata e con durezza gli aveva proposto: «Se mi dai una sigaretta, mi faccio scopare!»
Parole sconvolgenti, uno schiaffo improvviso che gli aveva dato la direzione, il senso della sua vita futura, non più predicare da un pulpito, ma fare in modo che a quella bambina (e a tutte quelle e a tutti quelli che vivevano in strada) potesse ritornare il sorriso. Aveva deciso di combattere le ingiustizie del mondo specie quelle contro i bambini. L’infanzia è l’anello debole, quello vessato, calpestato, mercificato. Doveva tornare loro la dignità, il diritto a vivere, a crescere, ad avere una famiglia, degli educatori, degli amici, insomma voleva dare loro la normalità.

È stato un viandante instancabile; conscio di avere un forte carisma, lo ha usato per coinvolgere in Italia molti in quell’impresa apparentemente impossibile: che i bambini tornassero a giocare. Ha saputo parlare alle giuste sensibilità; quell’intenzione è diventata presto un progetto e il progetto comunità, così è nata Macondo, luogo nascosto nella foresta raccontato da García Márquez, eppure crocevia di anime sensibili, di vite, di storie. Perché questo doveva diventare Macondo, non un cesto per la raccolta caritatevole fatta da un Paese lontano verso una realtà bisognosa, questo non avrebbe ridato il sorriso a chi lo aveva perduto, ma un soggetto che scuote le coscienze con il coinvolgimento diretto, attivando momenti per la relazione. Per un viandante come lui diventava d’obbligo invitare al viaggio, un viaggio indifeso, nudo, in una terra diversa, in una lingua diversa, dentro le altrui contraddizioni senza pregiudizi e senza giudizi, costretti a fidarsi dell’altro, convivere con la propria vulnerabilità e fragilità per vivere l’incontro.

Lui a essere definito viandante ci teneva, perché si riconosceva tale. Un camminatore, senza zaini e senza bisacce, solo con se stesso; l’unica cosa che poteva offrire era la sua persona, le sue parole, le sue utopie, il suo amore verso Gesù. Il Gesù della carne, della festa, della misericordia, dell’accoglienza, non quello dei rosari, non quello che l’attenzione di Dio va meritata. In questo si sentiva prete e lo affermava con orgoglio.
Camminando per l’Italia aveva capito che anche nella penisola serpeggia un morbo: la frantumazione tra le generazioni, il disorientamento dei giovani, i falsi miti. Il taglio con il passato c’è stato, non ha senso rievocarlo o rimpiangerlo, bisogna dare fiducia, porre speranza nelle nuove generazioni, bisogna invitarli a un viaggio (che cos’altro poteva proporre un viandante?) dentro se stessi, tra di loro, con loro per trovare un senso che dia all’umanità e non al Capitale, la centralità della vita. Niente di precostituito, perché la frammentazione c’era e c’è, bisogna riconoscerlo, ma davanti alle macerie abbiamo due scelte: o si piange o si ricostruisce. Si ricostruisce in una forma nuova, aprendo lo sguardo a un mondo che cambia velocemente, alle precarietà, alle culture, alle speranze che stanno bussando alle nostre porte, a una ricerca di senso che deve superare la sicurezza del giardino di casa. O ci si inventa una nuova coesistenza, la costruiamo assieme, o si va allo scontro. Giuseppe era un uomo di pace, la scelta era ovvia. Era uno che sceglie il faticoso cammino di montagna, il quale ti obbliga ad andare avanti facendo economia di forze e di ossigeno. Non si va di fretta in montagna, ma non ci si ferma. Quel passo lo ha accompagnato per tutta la vita.

Quando negli ultimi anni di vita la malattia lo ha minato proprio nella possibilità di camminare, Giuseppe ha scoperto la tecnologia, ha trovato il modo per non interrompere le relazioni, le ha fortificate usando la velocità della telematica, scrivendo a molti in privato e, con la possibilità di Facebook, condividere momenti di festa e riflessioni che consegnava al mondo (le chiamava pillole).
Ho tentato di raccoglierle quelle riflessioni e ve le propongo in queste pagine, spero vi torni utile rileggere la sua disarmante facilità di giungere velocemente al vero, a puntare il dito sulle nostre responsabilità, non intese come colpe, ma come capacità di trovare le risposte a un mondo alla deriva.
Questa prima raccolta va dal 2016 al 20191, le ho volute staccare da quelle precedenti in quanto sono quelle in cui aveva preso l’abitudine di firmarsi ‘Giuseppe Stoppiglia prete e viandante’, una orgogliosa rivendicazione di quello che era.

Rileggendola per poter scrivere questa prefazione, ho avuto una piacevole rivelazione, in questa raccolta ho avuto la sensazione di percorrere il Padre Nostro.
«Padre nostro che sei nei Cieli», ovvero una lode al Padre che siamo invitati a imitare nelle espressioni di alterità e di amore; essere «nei cieli», ovvero raggiungere la condizione divina che non è lontana da noi, ognuno è tempio di Dio, attraverso di noi dobbiamo concretizzare il Suo amore che si esprime nella relazione con gli altri, nel sostegno reciproco.
Il primo scritto di Giuseppe mi ha rimandato a questo. Lui racconta di un suo andare di prima mattina in montagna, il primo giorno dell’anno, una sorta di Bereshit (in principio), parola ebraica con cui inizia il racconto della Creazione. Chi fa meditazione, chi fa yoga (non come ginnastica, ma come conoscenza di sé)-ma sarebbe più corretto dire chi sta in meditazione, chi sta nello yoga- gli verrà facile ritrovare quei respiri che ci portano a rinsaldare il cordone ombelicale con il Tutto, che si percepisce col respiro, col silenzio, con la vitalità presente nella natura. «Mi è venuto incontro il sole», scrive. Il sole, è stato il primo dio a cui ci siamo rivolti e ancor oggi molti lo fanno il ‘saluto al sole’. Un ringraziamento, una lode, alla fonte di vita, lontana, ma presente, il primo incipit del Padre Nostro.

Proseguendo la lettura ci porta a intravedere vari aspetti della vita e vi lascio il piacere di riscoprirli.
Mi soffermo sull’ultima pillola, intitolata “Male”.
L’ultima parola che Giuseppe ci consegna, è la stessa con cui finisce il Padre Nostro: male. Non chiede a Dio di liberarcene, ma ci invita a esserne responsabili. Ognuno di noi può essere fonte del male, ci invita a controllarlo e vincerlo con l’unica maniera possibile: fare il bene. Invita a essere aperti e concentrati su se stessi allo stesso momento, fare della nostra vita uno spirito di servizio. Stupirsi della vita, come ci stupiscono i colori e i profumi di una camminata in montagna. Avanti, sempre, finché c’è respiro. Poi… poi ci aspetta il Tutto. Giuseppe è lì.

Alberto Camata

1ora trovate tutte le pillole anche quelle dal 2014 al 2015.