Neorurali, superstiti e sopravvivenza del vivente
Nel precedente numero di Madrugada, le parole di Massimo Angelini hanno introdotto questa nuova rubrica con il tema dell’abitare. Senza una presenza residente, il rischio è che la sopravvivenza di borghi e paesi sia fittizia, periodica, senza servizi. Nel suo testo, Angelini ha posto l’accento sulla dialettica tra residenti e villeggianti. Intendiamo qui per dialettica il «gioco di forze contrastanti che collidono e si ricompongono incessantemente», secondo una delle definizioni del vocabolario Treccani. Queste forze contrapposte hanno “pesi” diversi, a seconda dei momenti, delle scelte, degli interessi. In questo numero sviluppiamo una nuova tensione dialettica, quella tra i “neorurali” e gli autoctoni, che potremmo definire piuttosto “superstiti”, in quanto sopravvissuti a eventi potenzialmente distruttivi. Non tutti gli autoctoni sono superstiti. E non tutti i superstiti sono necessariamente persone.
Desiderare la campagna
Il neoruralismo è la tendenza degli abitanti delle città a trasferirsi nei paesi di campagna.
È un fenomeno in espansione nei paesi sviluppati. In Italia, questo fenomeno si articola in modi diversi.
Nei paesi dell’entroterra, alle spalle di medie o grandi città, può dar vita a un pendolarismo di seconde case o di micro attività legate al fine settimana e alle vacanze. A entrare in tensione, qui, è la diversa percezione di chi c’è sempre e di chi va e viene. Di chi resta anche in caso di neve e strade bloccate, di chi non sceglie la scuola per i figli, ma spera solo che uno scuolabus copra i quindici chilometri che separano il borgo dall’istituto più vicino. E di chi invece può contare su alternative più agevoli.
Nelle zone appenniniche più lontane, invece, il neoruralismo permette a borghi in stato di semi-abbandono di acquisire nuovi residenti stanziali, provenienti da grandi città ma anche da paesi dell’Europa settentrionale. Artisti di varia estrazione, neopensionati, giovani imprenditori, nuovi contadini provano a ridare vita a luoghi che l’avevano quasi perduta. Il rapporto con i superstiti è multiforme. Talvolta l’integrazione sembra autentica, talvolta ci si ignora. Si scontrano qui diverse rappresentazioni del vivere in un paese. Per i neorurali è un sogno a lungo accarezzato, che si è concretizzato nella scelta del borgo ideale, della casa perfetta, della vista mozzafiato, del silenzio ritrovato. Per i superstiti, la rappresentazione può mutare di molto: possono sentirsi i veri depositari della tradizione del luogo, ma possono anche viverci per mancanza di alternative. Di certo conoscono le storie del paese e di chi lo ha abitato, e si chiedono se i nuovi arrivati potranno mai acquisire questo bagaglio di esperienze e di dati.
Nei paesi di pianura, il neoruralismo è spesso associabile a un’espansione edilizia imponente. Per alcuni neorurali si tratta di tornare a vivere in campagna come i nonni. Per altri si tratta di avere un pezzo di giardino. Per altri c’è in gioco il sogno di una vita più calma. Ma i paradossi non mancano. L’edificazione a tappe forzate ha eroso l’anima contadina dei paesi, intaccando forse il motivo stesso del trasloco. E poi la civiltà contadina non andrebbe vista come un quadro bucolico. Il letame puzza, i galli cantano anche alle tre in certe notti d’estate, il campanile batte le ore, il trattore passa sotto casa alle sei. Senza ignorare gli investimenti immobiliari fatti in zone di coltivazione intensiva in regime di agricoltura convenzionale, con irrorazione di prodotti fitosanitari a finestre spalancate. Di suo, poi, l’espansione edilizia porta con sé un modello mentale. Non più la capezzagna (o carrareccia, o strada interpoderale…), ma la lottizzazione, con il corredo di strade asfaltate, marciapiedi, lampioni, tombini, recinzioni, striminziti alberelli. Un modello alieno calato sui campi, sbancando l’assetto precedente. Un modello di colonizzazione tipico delle società dominanti, dagli effetti irreversibili. Con bizzari punti di contatto tra il “vecchio” e il “nuovo”, come i marciapiedi che si interrompono tutt’a un tratto in mezzo ai campi: per alcuni una cesura senza poesia, per altri quasi un invito a completare quella lottizzazione stessa. In questi paesi di pianura l’osmosi tra vecchi e nuovi residenti sembra più agevole. Ma è talvolta un’illusione, solo perché la polarizzazione è meno evidente rispetto ai borghi con poche anime. Qui molti superstiti se ne stanno andando per sempre, talvolta senza poter lasciare in eredità il loro sapere, banalizzato dal trionfo di «un rigoglio banale e potente», come ammonisce Luigi Meneghello nella poesia Congedo.
Accogliere un lascito
Eppure c’è ancora tempo. Perché i superstiti sono persone, ma sono anche case, alberi, nomi.
Superstiti sono spesso gli anziani rimasti. Portano dentro ricordi e sogni, talvolta infranti. Amori scomparsi che abitano ancora le notti. Figli più o meno presenti. Ricordi e conflitti che non sempre sanno se condividere con i nuovi arrivati. Sono persone che sperano in qualche domanda da parte dei neorurali, ma faticano quando questa domanda si accompagna allo sguardo tipico di chi sta incontrando un simpatico villico, un personaggio pittoresco, una macchietta bucolica. Ci vuole tempo, per affiancare un superstite. Un tempo diverso da quello urbano. Un tempo di cui i superstiti sembrerebbero tra l’altro non disporre, se non altro per una questione anagrafica. E tuttavia, quando il tempo di chi arriva e accetta di sostare finalmente collima con il tempo dei superstiti, il passaggio di informazioni può farsi poderoso. Vale una vita. È un lascito. Il loro lascito. E quando i superstiti non saranno più, anche il neorurale sarà allora entrato nel flusso della comunità che lo ospita. Avrà ricordi, ne produrrà a sua volta di nuovi, avrà anche lui una tomba in paese su cui posare un fiore.
Superstiti sono anche alcune case. Sono quelle che testimoniano a noi oggi un altro modo di vivere e costruire. Case abbandonate da decenni e mai restaurate. Case in cui non si trova neanche un grammo di cemento. Muri in mattoni della fornace locale, chiusa da tempo. Malta di calce, rigorosamente. Travi di legno ricavate dagli alberi delle siepi campestri un tempo esistenti. Coppi in cotto, come sopra. Scuri e finestre in legno, come sopra. Dimensioni di porte, finestre e arcate frutto dei vincoli imposti dai materiali: mattoni, pietra dei colli vicini, legname da opera.
Superstiti sono anche gli alberi intatti. In certe zone d’Italia la loro presenza è predominante, in altre in pericolo. Da alcuni anni, soprattutto in pianura, si praticano capitozzature improprie e si assiste alla cimatura delle conifere. Molti i fattori scatenanti. I fenomeni atmosferici estremi hanno innestato in alcuni la paura per gli alberi, soprattutto quelli alti. Questo malessere, chiamato dendrofobia, è ancora tutto da studiare. A questo si aggiunge la tecnica, che rende accessibile l’acquisto di strumenti per potare a ogni altezza. E giardinieri improvvisati, privi di conoscenze agronomiche e arboricole. I nostri nonni hanno sempre capitozzato platani e salici. Ma non si sarebbero mai sognati di farlo con altre specie, perché sapevano che le avrebbero rovinate. Tagliavano gli alberi alla base quando si ammalavano o quando serviva legname, ma non correggevano le chiome dei grandi alberi troncando di netto i rampi principali. Ecco, in alcune zone gli alberi intatti sono dei superstiti.
Superstiti, infine, sono i nomi. La toponomastica locale che indica contrade, poderi, radure, anfratti. Si tratta a volte di nomi conosciuti solo agli autoctoni, destinati a scomparire con loro.
Ma sono nomi che possono rivelare molto. Rievocano un fatto accaduto. Indicano la composizione geologica del terreno. Rivelano l’antica presenza di un bosco o di una frana. Rimandano alla presenza di specie animali. Ricordano il cognome degli abitanti di una contrada.
Risiedere in un paese, abitare stabilmente un luogo, non è tanto un’ode alla stanzialità. È accogliere un lascito. È propensione a costruire legami, e quindi comunità.
Davide Lago
docente di pedagogia generale, formatore in percorsi autobiografici
redattore di Madrugada