L’ambiente sugli scudi

di Cortese Fulvio

Una riforma quasi silenziosa
Nella morse della lunga pandemia e della sopravvenuta crisi ucraina, il dibattito pubblico nazionale ha ignorato in modo pressoché totale una riforma costituzionale.
Gli artt. 9 e 41 della Costituzione italiana, infatti, sono stati modificati mediante un intervento approvato dalle Camere l’8 febbraio 2022 a larghissima maggioranza: con un consenso tale, cioè, che su queste innovazioni – come prevede la Costituzione stessa, all’art. 138 – non si è posto neppure il problema di svolgere una specifica consultazione referendaria. Di che cosa si tratta? Per effetto della riforma l’art. 9, che affida alla Repubblica i compiti di promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, e di proteggere il paesaggio e il patrimonio storico e artistico, ha un nuovo comma, secondo cui la Repubblica tutela «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni», e la legge dello Stato è chiamata a disciplinare «i modi e le forme di tutela degli animali».
Nel contempo, anche l’art. 41, che si occupa della libertà dell’iniziativa economica privata, viene integrato, nella parte in cui si prevede che i «fini», per i quali la legge determina «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata», non siano più soltanto quelli «sociali», ma possano essere anche «ambientali».
A prima lettura il silenzio della comunità potrebbe considerarsi scontato: chi mai dovrebbe opporsi al riconoscimento espresso, tra i principi fondamentali della Costituzione, dei valori dell’ambiente e della solidarietà intergenerazionale, o della protezione degli animali? Allo stesso modo, chi mai potrebbe negare che anche ragioni ambientali possano, o meglio debbano, legittimamente indurre il legislatore a intervenire nella materia economica?

Una curiosa situazione
Il fatto è che con simili cambiamenti si è rotto un tabù persistente del discorso sulle riforme costituzionali, ossia che esse non potessero mai riguardare la prima parte della Costituzione, vale a dire la tavola immutabile dei valori su cui è fondata tutta l’architettura repubblicana. E va anche sottolineato che si tratta di cambiamenti formalmente non così necessari, dal momento che la tutela dell’ambiente era già stata affermata come principio costituzionale dalla Corte costituzionale (sin dalla seconda metà degli anni ottanta del Novecento) ed era stata comunque costituzionalizzata anche in modo espresso (nel 2001) tra le materie nelle quali lo Stato vanta nei confronti delle Regioni una potestà legislativa esclusiva (art. 117, comma 2, lett. s). E per quanto concerne i diritti delle generazioni future, al di là di quanto si sarebbe potuto derivare dalla sola e attenta lettura dei doveri inderogabili di solidarietà sanciti dall’art. 2 della Costituzione, la Corte costituzionale ne aveva già affermato l’importanza decisiva, specie nel contesto delle sue letture progressive della disciplina costituzionale del bilancio (ossia della spesa pubblica).
Sarebbe da chiedersi, come si suol dire, se il gioco valeva la candela. Tanto più che, finora, anche con riferimento alla tutela degli animali il legislatore non è certo stato assente, e ciò nella (medesima) direzione non tanto di difendere una risorsa ambientale tout court (la fauna), ma di veicolarne il riconoscimento del carattere senziente (e, con esso, l’interesse a evitare forme indebite di sofferenza).
Per altro verso, poi, si deve sottolineare che nell’art. 41 si è rivisto l’unico comma di cui molti interpreti evidenziavano, da tempo, la sostanziale inapplicabilità, dato che in materia economica la sovranità statale è largamente condizionata, se non orientata e predeterminata, dal diritto dell’Unione europea. Perché mai, quindi, modificare una disposizione che di per sé vive da molti anni in un (legittimo) limbo di pratica indifferenza? Non si può trascurare, infine, un ulteriore aspetto critico. Il silenzio che ha accompagnato questa riforma è pari a quello che ha accompagnato la trasformazione costituzionale di poco precedente, quella relativa al “taglio” dei parlamentari, avvenuta nel 2019. Non si è trattato, neppure in quel caso, di una mutazione di poco momento. Eppure, anche in quell’occasione, si è potuto constatare un ampio consenso, che non solo non ha generato alcuna discussione, ma si è posto, come in quest’ultimo caso, in paradossale contrasto con gli accesi conflitti cui avevano dato vita, viceversa, le riforme del 2006 e del 2016, bloccate entrambe, come è noto, dal voto popolare.
Si ha quasi l’impressione che nel nostro Paese il tema costituzionale diventi importante solo in certi frangenti: o perché “solleticato” dalle contingenze dei rapporti di forza tra le formazioni politiche; o perché, peggio ancora, “travolto” dalle apparenze del politically correct, dandosi, cioè, l’idea che si può cambiare tutto se lo si fa, per così dire, “con le migliori intenzioni”.

Luci…
Occorre riconoscere, tuttavia, che nella riforma degli artt. 9 e 41 ci sono senz’altro molti profili positivi.
Il primo riguarda sicuramente la particolare enfasi, di limite assai forte, che il riconoscimento esplicito della tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità può dimostrare dinanzi a politiche pubbliche che possano mettere in dubbio i delicati equilibri del pianeta. In un’epoca storica in cui tanto si cerca di comprendere e di organizzare per fronteggiare i pericoli esiziali del climate change, la riforma ha il chiaro senso di promuovere nel novero dell’identità costituzionale italiana la valenza prioritaria della natura.
Un altro aspetto positivo concerne l’acquisizione dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità come parametro normativo trasversale e sistemico, in piena corrispondenza con le evoluzioni più moderne della disciplina legislativa di settore, nazionale come europea, e così in parziale, aperta discontinuità con le letture (dalle quali anche la Corte costituzionale, assieme ai giudici civili e penali, aveva preso originaria ispirazione) per le quali quello ambientale è innanzitutto l’oggetto di un “diritto”, che si lega a un certo modo di gestire il paesaggio e di tutelare la salute.
Si può dire, in buona sostanza, che gli “echi” suscitati dalle parole utilizzate nella riforma sono molto rilevanti, perché rimandano al principio dello sviluppo sostenibile, alludono alla centralità dei servizi ecosistemici e della c.d. “resilienza”, richiamano l’esigenza di guardare al fenomeno ambientale come a un “tutto complesso” (e comprensivo, dunque, dei processi dell’economia circolare): presuppongono, in definitiva, l’adesione a un modello (pur sempre) antropocentrico (ma intimamente) temperato, nel quale le decisioni pubbliche, lungi dal fondarsi sulla prevalenza di una volontà puramente politica, devono giustificarsi in base a parametri scientifici e devono inserirsi in un ciclo di programmazione e verifica costanti.

… e ombre
Eppure, proprio se tutto ciò è vero, non si può dubitare della circostanza che quando si muta l’assetto testuale della Costituzione si finisce per consentire che l’interpretazione sistematica della stessa possa produrre risultati anche inattesi. Sono pertanto comprensibili gli interrogativi che tanti studiosi si stanno ponendo: se ora l’ambiente, inteso nel modo anzidetto, è espressamente accostato alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione, forse che ora è possibile immaginare più facilmente che il primo possa bilanciare la tradizionale preminenza dei secondi? Potrebbe accadere, ad esempio, che nelle valutazioni discrezionali che da sempre animano il governo del territorio la realizzazione di impianti fotovoltaici o di parchi eolici su larga scala, anche in zone paesaggisticamente protette, possa essere più facile? La domanda non è peregrina, perché, per l’appunto, ambiente non è più, o non è più soltanto, “paesaggio-ambiente”, ma è sviluppo sostenibile, allargato anche alla produzione di energie alternative, meno inquinanti, rinnovabili.
C’è anche dell’altro. Se è vero che la riforma costituzionale ha “formalizzato” tra i principi fondamentali una nozione intrinsecamente dinamica della tutela dell’ambiente, la stessa nozione che, in altri termini, si è già affacciata nel diritto italiano vigente per effetto del diritto dell’Unione europea, non è allora possibile che, in base alla modifica sopra descritta dell’art. 41, il legislatore possa farsi forte di un intervento capace di rafforzare ulteriormente quell’ispirazione europea e di mettere vieppiù al centro i poteri dello Stato, titolare da tempo (come si è ricordato) di una potestà legislativa esclusiva? Le Regioni, in tal modo, sarebbero definitivamente escluse, più di quanto non lo siano ora, dalla compartecipazione all’attuazione responsabile di alcuni grandi principi? Inoltre, siamo proprio sicuri che l’intervento rafforzato dello Stato in materia ambientale, così concepito, sia un intervento sempre e comunque destinato a rivelarsi come compatibile con il delicato e diffuso intreccio di culture e di sensibilità collettive presenti nel nostro Paese? Non può concretarsi come ulteriore veicolo di politiche pubbliche sinergiche con il prevalente obiettivo di liberare, sia pur in modo “felicemente” sostenibile, specifiche forze produttive, proiettate e garantite in modo uniforme su tutto il territorio? Ecco che una riforma costituzionale potenzialmente avanzata e silenziosamente acclamata riuscirebbe a palesare il suo lato più rischioso. Ed ecco che, a noi cittadini, non resta che attivare, se consapevoli dell’autentico valore della posta, un altro principio costituzionale, che è previsto dall’ultimo comma dell’art. 118, e che obbliga tutte le istituzioni repubblicane a riconoscere e a integrare nella propria azione le iniziative di chi si proponga di realizzare l’interesse generale. Perché tale è, e deve restare, anche l’ambiente.

Fulvio Cortese

professore ordinario di diritto amministrativo, preside della facoltà di giurisprudenza

università degli studi di Trento