La lezione di Liliana Segre
Gli applausi facili
Come l’Italia non è. Come l’Italia dovrebbe (e forse potrebbe) essere. Il discorso di Liliana Segre per l’apertura dei lavori del Senato della Repubblica dobbiamo leggerlo, rileggerlo, impararlo a memoria (trovate in rete il testo integrale). Ci trovate, come sempre nei suoi interventi, il ricordo vivo di lei bambina nell’Italia fascista delle leggi razziali. Ma la sua è stata una lezione di democrazia, il richiamo al contenuto più alto e più vero della nostra Costituzione repubblicana, che dopo più di settant’anni aspetta ancora di essere applicata.
Ed è una responsabilità che pesa come un macigno su tutti i parlamenti e i governi che si sono succeduti. Il suo, espresso con la sua proverbiale mitezza, suona come un vero j’accuse: «Se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione, peraltro con risultati modesti, talora peggiorativi, fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice».
Alla fine, come sempre le succede, Liliana Segre, bandiera di una repubblica che non c’è, è stata sommersa d’applausi. Mi sono chiesto cosa pensi in cuor suo di questo universale successo mediatico e credo lo scambierebbe volentieri per qualche atto concreto verso la democrazia e la giustizia.
Le prime (brutte) figure
È andata come si sapeva. La destra ha vinto, anzi ha stravinto. Per la prima volta governerà il Paese, forte di una maggioranza apparentemente solidissima. E adesso? Non c’è molto da dire. Oppure tanto: perché l’avventura della maggioranza di destra (con un po’ di centro) è cominciata malissimo. Ed è continuata peggio. La vicenda è talmente nota («tutta la città ne parla») che basta il nudo elenco dei fatti, senza commento.
Prima l’elezione alla presidenza del Senato (sarebbe la seconda carica dello Stato) di Ignazio Benito La Russa, senza i voti di Forza Italia (il presidente La Russa si prende il primo vaffanculo da Berlusconi) e grazie a 19 voti dell’opposizione. A chi imputare questa vergogna? A Renzi, ai 5 Stelle, a qualche furbetto del PD? Non lo sapremo mai. Quel che sappiamo è che faide e divisioni nelle forze dell’opposizione non sono meno gravi di quelle nella maggioranza.
Poi l’elezione alla presidenza della Camera dei deputati del vice di Salvini e conclamato omofobo, Lorenzo Fontana (finalmente Salvini si calma e canta vittoria). Ma il Cavaliere è imbufalito: niente, Giorgia non gli fa neanche ministro la Ronzulli; la Meloni dimentica il fair play e risponde a muso duro al Cavaliere: «Non sono ricattabile».
Dura minga, dura no
Infine, a tempo di record, il primo governo Meloni: un puzzle variopinto, un affresco tanto grande per accontentare i vari appetiti, personali e di partito. Nuovi ministeri. Nuovi nomi per vecchi ministeri. Qualche tecnico “di partito”.
Al giuramento davanti a Mattarella, c’era un clima di festa. Ma dietro i sorrisi covano rancori inestinguibili. Per esempio: Salvini è furioso con Giorgia che ha rubato alla Lega due terzi dei “suoi” voti. Berlusconi è furioso con Giorgia perché non ha dato abbastanza spazio ai suoi ministri. I leghisti del nordest sono furiosi con Salvini e pensano a come defenestrarlo. I forzisti scalpitano e aspettano il prossimo ricovero al San Raffaele di un patriarca barcollante e fuori controllo. Perfino il vecchio democristiano di razza Paolo Cirino Pomicino ha consigliato al Cavaliere un urgente pensionamento.
Ce l’hanno ripetuto fino a sfondarci le orecchie: «Sarà un governo che durerà cinque anni». Potrebbe essere l’unico primato che riesce a intestarsi la destra al potere (dal 1948 a oggi si conta la bellezza di 67 governi, e nessuno è durato per un’intera legislatura). Non sarebbe cosa da poco: in Italia la governabilità è sempre stata un’utopia.
Per adesso Giorgia Meloni è riuscita a mettere insieme tutti i pezzi di una maggioranza tutt’altro che unita. Ma siamo solo al nastro di partenza, la navigazione si presenta piena di insidie.
La società e l’economia italiana sono allo stremo. «Non sono ricattabile» – ha detto Giorgia, che vuol dire il contrario: Giorgia Meloni è sotto ricatto. E lo sarà sempre di più nei mesi a venire, quando i nodi verranno al pettine. Se devo fare una previsione, il primo governo Meloni durerà come o meno degli altri. Non serve l’analisi di un meteorologo politico, basta la previsione di un milanese qualunque: «Dura minga, dura no».
Mandare a casa i colonnelli
Sul Partito Democratico, che rimane pur sempre il primo partito di opposizione, lascio volentieri la parola a Benito Boschetto, che, come tanti critici e scontenti, quel partito ha continuato stoicamente a votarlo anche questa volta.
Scrive Boschetto: «La sconfitta elettorale del PD non è solo di Enrico Letta, ma di tutto un gruppo dirigente di pavidi poltronari, senza dignità e spina dorsale. La battaglia era difficile. Si sapeva. E proprio per questo richiedeva un supplemento di coraggio, di entusiasmo, di impegno. E anche di rischio.
Invece questi colonnelli, tutti, si sono acconciati nel listino bloccato per garantirsi la rielezione. Nessuno, dico nessuno, si è presentato nei collegi uninominali a cercare voti per il partito.
Nessuno ha fatto campagna elettorale. Hanno lasciato solo il povero front runner».
Ma quella del PD non è solo una sconfitta elettorale, ma una perdita di identità, di senso, di orizzonte. Scrive ancora Boschetto: «Se un partito “di sinistra” sta dieci anni al governo e, in questo periodo, le disuguaglianze e la povertà aumentano in modo sconcertante, il suo fallimento è conclamato».
Il partito andrà presto a congresso – le manovre dei colonnelli sono in pieno svolgimento – ma se non avrà il coraggio di mandare a casa l’intera classe dirigente e ripartire dai ragazzi e ragazze che ancora coltivano la passione, riscoprire i valori della sinistra, schierarsi con chi chiede giustizia ed eguaglianza, il tramonto del Partito Democratico diventerà irreversibile.
Libertà per Julian Assange
ll 15 ottobre scorso, per iniziativa della coraggiosa agenzia di stampa indipendente Pressenza, in tutta Europa si sono svolte piccole e grandi manifestazioni per la libertà di Julian Assange (prendetevi il tempo di leggere su Wikipedia la storia del suo calvario giudiziario). Assange è attualmente detenuto nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito.
Il suo primo arresto, l’inizio del suo calvario giudiziario, risale al 2010. Ora – dopo il pronunciamento del tribunale britannico – rischia concretamente di essere estradato negli Stati Uniti, dove è già stato condannato a oltre 140 anni di carcere.
Julian Assange ha ricevuto decine di riconoscimenti per la sua attività di giornalista ed editore libero (non ultimo quello di Amnesty International), eppure in questo momento nessun paese al mondo si è fatto avanti per accoglierlo come rifugiato politico e salvarlo dalla vendetta del governo americano (repubblicano o democratico, in questo caso non conta). Evidentemente, anche se molti ormai parlano di declino dell’impero americano, l’influenza e il potere commerciale degli Usa sull’America Latina e sull’Europa è ancora fortissimo.
Se il fondatore di WikiLeaks, perseguitato e incarcerato da molti anni, appare oggi il portabandiera e insieme il capro espiatorio della libertà di espressione e di stampa, i grandi media di tutto il mondo, e segnatamente i media europei – peggio ancora, i grandi giornali italiani – sembrano averlo dimenticato. Abbandonato al suo destino. Con buona pace della libertà di espressione.