Il lessico del contagio: parole in pandemia
È raro poter datare, con una certa precisione, e in un breve lasco di tempo, l’inizio di un proliferare linguistico di livello planetario che, a valanga, ha travolto la vita personale.
affettiva, sanitaria, sociale, politica, lavorativa, scolastica, economica di ognuno di noi e delle nostre comunità di appartenenza. Solitamente le parole evolvono nel tempo, con cauta lentezza, incontrandosi, attraendosi, respingendosi, scambiandosi significati, meticciandosi, confondendosi, prestandosi parti per poi trasformarle. La linguistica, con fare segugio, ritrova la strada, recupera, descrive, ricostruisce la loro storia e tenta di dipanare il gomitolo delle loro trasformazioni, intrecci che vanno dalla loro nascita, dai loro primi passi, fino alle definizioni dei nostri giorni. Un articolo su la Repubblica segnalò per la prima volta il ricovero del primo paziente affetto da coronavirus, termine non nuovo in ambito medico ma sconosciuto ai più. Era l’11 gennaio 2020. Da quel momento però questa parola, e il suo acronimo covid-19, fecero da apripista a un proliferare incredibile del linguaggio, una contaminazione di termini.
registri, contesti, usi figurati, traslati enfatici, mediatici e, forse per la prima volta in modo così imperversante, social. Si è velocemente formato un vero e proprio “lessico del contagio” globale, caratterizzato da una scelta linguistica “deflagrante”: parole usate spesso come specchi deformanti, uno stile comunicativo a volte inutilmente complicato, improprio, con espressioni ambigue, che ha messo insieme a termini medici, scientifici e semi-specialistici, neologismi, forestierismi.
risemantizzazioni, sigle e acronimi utilizzati nella comunicazione giornalistica, istituzionale, pubblicitaria, economica, burocratese, commerciale e nelle scritture spontanee dei social network. Le parole sono state prese a prestito inizialmente per comunicare urgenze ed emergenze nuove, inattese e inimmaginabili, che ci trovavano proprio “senza parole”.
segnale evidente di reale e diffuso pericolo che si sperava di risolvere in breve tempo e di cui certamente, all’inizio, non se ne coglieva la complessità e la portata. Parole usate a volte a vanvera, altre in modo più o meno lucido, efficace, per dar voce a narrazioni, informazioni, inchieste, per alimentare polemiche, dissenso, nel tentativo affannoso di fronteggiare una pandemia che ha disorientato, impaurito e inginocchiato non solo l’Italia, l’Europa, l’Occidente, ma il mondo intero.
La lingua infetta
Daniela Pietrini bene racconta questa lingua, che viene a sostegno di una nuova.
drammatica e imprevista esperienza di contagio: in La lingua infetta. L’italiano della pandemia (Treccani, Roma, 2021).
approfondisce come un evento mondiale di questa portata, che ha avuto un fortissimo impatto sulla vita delle persone.
non potesse non avere ripercussioni anche sul piano linguistico. E prende in esame parole, come ben sintetizza Sergio Lubello in una sua recensione al libro: sottoposti «senza limiti alla fantasia combinatoria di parlanti comuni e giornalisti», i termini chiave sono stati manipolati in una miriade di formazioni (corona-caos, coronacongedi) fino a fantasiose parole macedonia (corona-bond, covidiota): […] dai molti composti (ospedale covid).
anche con valore aggettivale (paziente covid positivo), a forme ibride (area covid free) e a più rari neologismi giornalistici come covidsafe “a prova di Covid”. Abbiamo presto imparato le capriole e le volute di parole comuni planate in modo nuovo sui nostri discorsi, abbiamo vissuto con difficoltà le contraddizioni e i paradossi, per esempio, affettivi e comportamentali, che alcune parole, più di altre, hanno significato. Voler bene a qualcuno ha richiesto di rispettare il distanziamento sociale (che traduce il social distancing), proteggere la vita e il benessere di chi si ama, ha imposto a tutti di non accarezzare, baciare.
toccare, perfino di non andare a trovare i nonni, magari ricoverati in case di riposo! Si è rovesciata la logica dei nostri comportamenti: voler bene ha significato tenere lontani, tenere distanti. Si è declinato un vero e proprio nuovo lessico della distanza, della messa in sicurezza, mentre gli scaffali dei supermercati si sono riempiti di disinfettanti, detergenti per eliminare germi e batteri, andati a ruba.
acquisti “salvifici” che proteggevano dall’idea ormai insinuata nelle menti dell’“altro pericoloso per me”, “infettante la mia vita”. Sarà interessare tenere sotto osservazione la futura tendenza di questo lessico della distanza, che ha declinato in mille modi il concetto.
rendendo roccaforte e pratica efficace di prevenzione il calcolo dei metri che ci separano dall’altro. La distanza ha pervaso le nostre vite: si sa, isolati si ha più paura. Il distanziamento, sicuramente necessario, ha riorientato velocemente anche la nostra modalità lavorativa e di studio, dagli esiti ancora incerti, e dall’efficacia, in alcuni casi, ancora tutta da verificare. Siamo passati velocemente dal telelavoro allo smart working, alla DaD (didattica a distanza, inizialmente sconosciuta ai più) che ha messo duramente alla prova alunni, insegnanti e famiglie, evidenziando povertà educative, economiche, di risorse.
di cura, sancendo il trasferimento, la dislocazione delle normali.
quotidiane attività dai loro luoghi abituali, da un setting conosciuto, che connota funzioni e rinforza ruoli e compiti, a uno più “casalingo e scarsamente significante”. Questa nuova esperienza è stata però anche l’occasione per chiederci, forse per la prima volta.
se la relazione sia davvero possibile solo in presenza, così come l’empatia. Abbiamo sperimentato la pressione dello schermo del pc, la frustrazione di una connessione instabile, che ci isolava dal mondo e ci rigettava nella mischia secondo i “capricci” del nostro wi-fi. Abbiamo colto sguardi sfuggenti spuntare dalla mascherina.
fissare il vuoto o cercare un contatto. Alla dimensione di separazione e di vita tenuta in sicurezza si collega un altro terminechiave, la “bolla salvifica”, diversa dalla bolla di calore, o dalla bolla speculativa, altro neologismo semantico, che fa riferimento alla possibilità di rinchiudersi in una “bolla asettica”, protetta, a garanzia di un sempre più organizzato isolamento, promessa di salute e sopravvivenza che però porta inevitabilmente con sé la consistenza e la fragilità… di una bolla, appunto!.
Vittime designate della metafora bellica
Abbiamo inizialmente sperato in una epidemia: malattia che colpisce un gran numero di persone ma in un’area geografica limitata.
più o meno estesa. Ma l’OMS ha poi dichiarato che eravamo di fronte a una pandemia, la cui etimologia greca non lascia scampo: pan-demos, che significa letteralmente “tutto il popolo”, dunque planetaria. La pandemia ci ha costretto a ragionare in termini globali, ci ha insegnato che il mondo è uno solo e gli uomini una sola comunità ugualmente esposta e fragile e abbiamo subito capito quanto eravamo disarmati… Sì, perché a rinforzo del lessico del contagio si è preso a prestito anche quello bellico: battaglia, guerra.
fronte del contagio, prossima trincea negli ospedali, di economia di guerra. Specie in tempi difficili, ci si dovrebbe sforzare a usare parole esatte e di chiamare le cose con il loro nome. Le parole che si scelgono per nominare e descrivere i fenomeni possono aiutare a capirli meglio. E quindi a governarli meglio. Quando però si scelgono parole imprecise o distorte, la comprensione rischia di essere fuorviata. E sono fuorviati i sentimenti, le decisioni e le azioni che ne conseguono. Usare metafore di guerra per descrivere una malattia incita alla battaglia più che alla guarigione, rinforza fronti contrapposti, insinua il nemico, cerca il traditore, l’untore.
militarizza comportamenti che poco hanno a che fare con la cura di una malattia, il dolore di un isolamento. Condivido la perplessità di Cassandro che su Internazionale riporta una citazione di Susan Sontang, che sostiene: «Trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate». E conclude affermando che «la metafora del paese in guerra è rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo perché parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. L’automatismo della metafora bellica mi sembra troppo persistente e diffuso per essere ridotto a pura sciatteria lessicale». Anche la parola lockdown, che ha presto cominciato a circolare, e che non si sapeva esattamente tradurre, rientra in questo registro. Perfino la “venerabile” Accademia della Crusca (decisamente messa alla prova in questo periodo) inserisce tra le nuove parole anche questa, ma specificando che «… non promuove né ufficializza l’uso della parola trattata, ma intende fornire strumenti di comprensione e approfondimento». Data di inserimento è il 20 maggio 2020. Tempestivi! Prestito integrale dall’angloamericano, per lockdown si intende il confinamento di prigionieri nelle loro celle per un periodo prolungato di tempo, solitamente come misura di sicurezza o punitiva. In italiano può essere tradotto come chiusura totale.
traduzione che non rende conto della drammaticità punitiva della parola angloamericana. Il lessico del contagio è sicuramente in divenire, non è definito una volta per sempre, è un costrutto dinamico che si modifica ormai in tempo reale. Come il virus. Definizioni e uso nuovo di parole note confondono pensieri e discorsi tanto che “essere positivi” indica ora un pericolo, si è in salute solo se si è negativi… o si spera di diventarlo presto! Cosa resterà di queste parole e dei loro significati? Li dimenticheremo? diventeranno parte integrante del nostro bagaglio linguistico? stabili nei nostri vocabolari? Non lo sappiamo. C’è molto da riflettere sul rapporto lingua (italiana) e pandemia… Giusto per creare un po’ di sani anticorpi ad altri pericolosi virus: la superficialità e il qualunquismo.