Esule, profugo, rifugiato
Ci sono termini che si rincorrono in questo tempo di guerra, parole che raccontano la condizione dell’essere umano in fuga dalla propria terra, dai propri affetti, dalla propria storia e identità. Parole antiche, non certo neologismi, che dicono che questa esperienza arriva da molto lontano, si perde nella notte dei tempi, un destino che nei millenni, pur con le sue diversità, ha colpito civiltà, popoli, persone.
Esule
Ci sono ipotesi diverse sulla precisa origine etimologica di questa parola che resta comunque incerta. Quella classica, che sembra ormai progressivamente screditata, la fa risalire dal latino “exulem”, composto da ex- (fuori) e solum (suolo, paese, regione): fuori dalla terra, dal paese. Altra possibilità è che esule derivi da “exsilire” che significa: saltare fuori, il cui sostantivo è exsilium. Un’ultima ipotesi viene formulata prendendo in considerazione la radice latina “sal”, antica “sar”, dal sanscrito sarami, che significa salire, che figurativamente sottolinea un andarsene in salita, un andar via avverso, difficile, se si considera che è anche la stessa radice di strisciare.
Ognuna di queste definizioni esprime aspetti importanti dell’esperienza dell’esule. Lontani dal rigore scientifico di filologi e linguisti si possono mettere insieme queste tre possibili etimologie e il significato di questa parola diventa sicuramente più compiuto: esule è colui che lascia la propria dimora, la propria terra, che deve “saltare fuori” dalla propria vita, dalla propria casa e intraprende una strada in salita, piena di insidie e rischi che potranno farlo anche strisciare.
Dura realtà prodotta dalla storia, anche attuale, dalla tormentata convivenza tra gli uomini e metafora stessa della condizione umana, l’esilio dalla propria terra, sempre doloroso, difficile, si configura come perdita di sé e di tutti i propri punti di riferimento, con conseguente smarrimento del senso di identità e di appartenenza.
Si esce dalla propria terra per necessità di sopravvivenza, non per progetto di vita, violenta esperienza di s-radicamento subìto, che testimonia anche il coraggio estremo agito per la necessità impellente di mettere in salvo affetti, vite, in nome dei quali si parte, magari di nascosto, a volte strisciando nel buio per sentieri laterali, indifesi e, spesso, senza dignità.
Questo è l’esilio oggi subìto da migliaia di persone che, stringendo tra le mani le loro radici, cercano nuova terra per non morire.
In fuga ma con la speranza nel cuore di tornare presto a casa, anche se l’accanirsi furioso dei crimini di guerra e la distruzione di infrastrutture, ospedali, scuole, strade, ritarderà il loro rientro per molto tempo.
È nella Grecia classica, quella di Pericle, che viene pensato l’esilio come terribile punizione: nel mondo di allora era considerata la condanna più atroce che si potesse infliggere a una persona, peggiore perfino della condanna a morte, perché quest’ultima lasciava intatta l’identità, l’essere cittadino di quella città. Nella condanna a morte, inflitta perché si era venuto meno alla legge, a un giuramento, la persona ne subiva le conseguenze estreme, ma la morte non toglieva il diritto di appartenere a quel contesto civico. Nella condanna all’esilio, invece, sebbene venga fatta salva la vita, la pena prevede la recisione dei legami e, in questo caso, è l’identità che viene uccisa: non sei più figlio di tuo padre, di tua madre, della tua patria. Allo stesso Socrate, prima della condanna a morte, venne offerta la possibilità di fuggire che rifiutò con sdegno. Nello scegliere la morte, Socrate scelse di non rinunciare al suo diritto di appartenere fino all’ultimo alla sua città, di essere e rimanere fino alla fine cittadino di Atene, conservando così la sua piena identità e umanità.
Esiliato ti presenti in un’altra terra come profugo o rifugiato.
Queste due parole sono spesso usate come sinonimi, ma indicano due fenomeni legati, ma non coincidenti.
Profugo
Deriva dal verbo profugĕre: cercare scampo, composto dal prefisso pro- e fugĕre: fuggire. Il profugo è una persona costretta ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, per povertà, fame, calamità naturali: cataclismi come eruzioni vulcaniche, terremoti, alluvioni, siccità.
Il profugo non è sempre nelle condizioni di poter chiedere la protezione internazionale, soprattutto se l’abbandono della propria terra è motivato da ragioni climatico-ambientali che generano siccità, conseguenti carestie e impossibilità a sopravvivere. Lo spostamento di popolazioni causato dal progressivo degrado del nostro ecosistema e dalle variazioni climatiche non è un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità; ma la modificazione dell’ambiente a opera dell’uomo è oggi così rapida, e di tale portata, da risultare gravemente impattante come dimostrano i sempre più frequenti disastri naturali. In base ai dati delle Nazioni Unite sono più di 200 milioni le persone coinvolte o potenzialmente esposte agli effetti disastrosi dei mutamenti del clima. Anche qui esiste una grave disparità: nei paesi in via di sviluppo viene colpita, per calamità naturale, una persona su 19, mentre nei paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) il tasso è di 1 su 1500.
Le aree di provenienza sono dunque quelle più povere, caratterizzate da economie di sussistenza. Privi dei mezzi necessari per affrontare lunghi spostamenti, questi profughi si muovono prevalentemente dal villaggio verso la città più vicina, rifugiandosi negli orribili slums che circondano, per esempio, le metropoli africane e non solo.
Rifugiato
Deriva dal participio passato di rifugiarsi, a sua volta dal latino refùgium, composta dal prefisso re (dietro) e fugère (fuggire): luogo dove uno si ritira per essere al sicuro.
L’accezione del termine più usata è quella di rifugiato politico: individuo che, già appartenente per cittadinanza a uno Stato, è accolto, in seguito a vicende politiche avverse, in un altro territorio.
Il rifugiato è colui che ha lasciato il proprio Paese, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza politica e chiede asilo, e trova rifugio, in uno Stato straniero.
La condizione di rifugiato è definita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, un trattato delle Nazioni Unite firmato da 147 paesi.
Nell’articolo 1 della convenzione si legge che il rifugiato è una persona che «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese».
Dal punto di vista giuridico-amministrativo è una persona cui è riconosciuto lo status di rifugiato perché se tornasse nel proprio paese d’origine potrebbe essere vittima di persecuzioni, ovvero azioni che, per la loro natura o per la frequenza, sono una violazione grave dei diritti umani fondamentali e sono commesse per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale.
Si tratta di un movimento di popoli impressionante, che coinvolge ormai più di 45,5 milioni di persone, un’umanità in cammino, spesso disperata, che toglie il fiato.
Monica Lazzaretto
presidente di Macondo
vive a Tramonte (Pd), lavora a Mira (Ve), come responsabile del centro studi della Cooperativa Olivotti scs