Domandami di questo tempo
Andare al minimo
Senza cura
Pur nella fatica di seguirlo nel suo generoso tentativo di parlarci in italiano, Razi Mohebi ha lasciato alcune profonde tracce nella mente e nel cuore di chi abbia ascoltato l’incontro serale di Macondo del 10 dicembre scorso. Il regista afghano, accompagnato dalla moglie, ha raccontato il suo punto di vista sul paese, chiedendoci, con lo sguardo prima che con le parole, di provare a credere nella speranza per il suo popolo.
Conservo e rilancio il suo ragionamento iniziale.
In Afghanistan manca ogni cosa che permetta una vita degna di essere vissuta, ma soprattutto è stato rapito il significato delle parole. Non esiste infatti un luogo di dialogo, dove dire e ascoltare, perché non c’è più il silenzio per fare le domande. E se non si dà dialogo, non si dà nemmeno cura. Senza cura, conclude Razi, c’è massimizzazione e quindi guerra, o meglio cultura della guerra. Colpisce come nel suo discorso non siano emersi gesti violenti di dittature e terrorismo, in primo luogo, quanto qualcosa che è stato interiorizzato dalle persone.
Nello specchio
Massimizzare. Portare al limite massimo. Vengono in mente subito due casi specifici: il profitto e la felicità. Nel primo, la capacità produttiva, nel secondo «la massima felicità per il maggior numero di persone», come direbbe J. Bentham, divengono «la misura del giusto e dello sbagliato». Quando rileviamo la scomparsa della politica, o meglio la sua dipendenza dalle dinamiche economiche di mercato, non dovremmo semplicemente guardare alle istituzioni sovranazionali che governerebbero le scelte, ma alla “logica della prestazione” che abita prima di tutto la nostra vita quotidiana. In questo senso forse l’esperienza dell’Afghanistan non è altro che uno specchio in cui riconoscere una parte, cospicua e radicalizzata, della realtà occidentale.
Il pieno e il vuoto
«Avremo tavoli pieni di persone contente/ e fuori dei motori pieni di benzina» – cantava la Mannoia parole di Ruggeri. Le tavole vuote non per pandemia, ma per reale miseria, sono escluse dal comodo osservatorio di molti di noi e già qui l’intero discorso parrebbe inficiato. Quelle drammaticamente senza pane sono nascoste al flusso iconico delle “fotine” sui nostri social, delle fatine danzanti sui canali streaming dei nostri figli, del fatale ripetersi degli asterischi sui nostri esami del colesterolo. Il troppopieno di tante nostre esistenze non riguarda solo la moltiplicazione degli oggetti che ci circondano e ci nutrono, ma anche il tempo di lavoro, accelerato dopo l’estate, in un autunno-inverno che si è voluto di ripartenza, di ricostruzione, di rilancio del PIL. Tutto deve tornare alla normalità, anzi va recuperato quanto perduto: massimo di profitto – perché ci sono pur sempre le famiglie dei lavoratori; massimo di programma – perché i ragazzi hanno pur sempre diritto all’istruzione; massimo di agenda – perché associazioni, parrocchie, cinema, teatri, ristoranti, bar, corrieri devono pur sempre continuare a vivere.
La massimizzazione trova la sua saggia giustificazione, la quale non può più essere letta in termini di ideologia: operai, studenti, operatori dei servizi e del Terzo settore non riguardano più “semplicemente” un proletariato sottoposto a sfruttamento. Se allora escludiamo gli ospedali, perché intoccabili, le carceri, perché assegnate di diritto all’oblio civile e i migranti, la cui emergenza attende di essere rievocata quando sarà utile, il panorama è simile a quello di una colorata città virtuale, in un game elettronico dai pixel molto sgranati, i cui personaggi si incrociano ma non si possono incontrare, né riconoscere.
Minimo comun denominatore
Lo spirito di Macondo conduce a scegliere gli ultimi della Terra, abitino essi le periferie afghane o brasiliane, palermitane o venete e tuttavia corre il rischio di adagiarsi in un qualche terzomondismo “diffuso”, in cui i poveri sono sì una categoria ideologica, perché essi hanno molto da insegnare. Ma da loro impara solo chi non li veda come tali e cioè chi rifiuti «una storia in cui il destino dei singoli appaia indifferente», come ha detto Maurizio Pagano, descrivendo le intuizioni di Aldo Capitini sui Centri di Orientamento Sociale (la registrazione sta sul sito di Radio Radicale). Si tratta allora di indagare l’altra complessità, quella del meccanismo del benessere sopra descritto. Se guardiamo appena al di là del mondo animato e indaffarato del “gioco”, se leggiamo il codice sorgente della pagina – cioè se rinunciamo ad avere come obiettivo il massimo dei punti –, ecco gli esclusi dalla partita. L’elenco sfida la banalità, se non ospitasse drammi: i morti sul lavoro, ragazze e ragazzi inascoltati, assenza di tutele sindacali minime, solitudini di anziani, donne, uomini. Come parlarne, ma non a partire da una posizione di privilegio? Come dare parola, anche politica, a chi si dia il compito, quotidiano e non interessato, di “andare al minimo”? Come costruire luoghi di discussione in cui questa cura possa trovare domanda? .
Giovanni Realdi
insegnante di storia e filosofia, liceo scientifico statale “G. Galilei” Selvazzano Dentro (PD)
componente la redazione di madrugada