Dalle città globali all’urbanizzazione planetaria
In un recente articolo su Il Sole 24 Ore, Niccolò Cuppini delinea la complessa realtà di Chongqing, una municipalità cinese che sfiora i 39 milioni di abitanti. Nel nucleo urbano vero e proprio si contano otto milioni di abitanti, ma i confini comunali ne contengono trentuno (più o meno gli abitanti del Canada), a cui se ne aggiungono altri otto se si considera l’hinterland. La superficie complessiva è quanto quella dell’Austria.
Urbanizzazione e modelli in gioco
Un agglomerato di questo tipo è interessante sotto vari punti di vista. Certamente lo è sul piano dei rapporti tra urbano e rurale, con la campagna molto urbanizzata e intrecciata se non inglobata nella città. Al suo interno, ogni giorno si muovono milioni di persone.
Il rapporto con la terra, con le stagioni, con ciò che è vivente, sembra secondario a questo movimento. D’altronde, la municipalità nasce (per progressiva fusione di città) proprio dallo sradicamento delle persone dal loro habitat: è qui che hanno trovato ospitalità milioni di sfollati a seguito della costruzione della diga delle Tre Gole.
Chongqing è peculiare anche nella sua forma di governo, essendo sotto la tutela diretta del governo centrale. Il dirigismo politico sembra connaturato a un certo tipo di trasformazione rapidissima del territorio: creazione di aree di speciale insediamento di mega aziende, costruzione di numerose unità abitative, spostamento di masse di cittadini, trasformazione radicale del territorio con conseguente umiliazione della biodiversità.
Chongqing è particolare infine per lo sviluppo di un quartiere-startup di quattro milioni di metri quadri, concepito da un’azienda cinese specializzata nell’intelligenza artificiale. Qui si starebbe testando come un territorio possa venire governato da algoritmi e da tecnologie di apprendimento artificiale. Progetti come questo rientrano nel novero delle smart city, cioè città intelligenti, brillanti, sofisticate, vivaci, sveglie, furbe. Ed etero-dirette, potremmo aggiungere. Anche qui, la biodiversità si riduce non di poco.
Secondo fonti delle Nazioni Unite, se nel 1950 le città con oltre un milione di abitanti erano circa cinquanta, nel 2016 erano salite a 512. Sempre nel 1950, quelle con oltre dieci milioni erano solo due: New York e Tokyo. Nel 2016 erano salite a trentuno, ventiquattro delle quali nei paesi del “sud” (Delhi, Shangai, Mumbai, San Paolo, Pechino, Città del Messico…). La tendenza attuale fa prevedere che nel 2050 oltre 6 miliardi di persone nel mondo vivranno in un’area urbana o fortemente urbanizzata. Con conseguenze paradossali in termini di giustizia sociale e diseguaglianze.
Le città globali
La sociologa Saskia Sassen introduce il concetto di città globali, che emergono negli anni Novanta come luogo di cui la globalizzazione ha bisogno per vivere. Si tratta delle città più importanti del mondo, veri e propri poli di decisione planetaria che corrispondono alle sedi (centrali o periferiche) di grandi aziende multinazionali.
Cosa caratterizza le città globali? Innanzitutto il fatto di essere interconnesse su finanza, consulenza, mercato immobiliare, energia, per mezzo di circuiti economici che scavalcano gli Stati-nazione.
Le città globali offrono servizi e competenze molto richiesti dalle multinazionali e organizzano i flussi materiali e immateriali. In sostanza, si configurano come nodi di servizi centralizzati generati dalla dispersione produttiva e dalla sua internazionalizzazione. Tra di loro, le città globali interagiscono in modo tendenzialmente “orizzontale”. Con le piccole città che le circondano, invece, la relazione è più di tipo “verticale”, arrivando fino a una totale disconnessione con l’entroterra. Esse paiono adeguarsi alle esigenze delle multinazionali, che necessitano di trovare in loco: a) servizi di alto valore economico, culturale e scientifico in cui l’élite circolante possa ritrovarsi; b) un elevato tasso di internazionalizzazione della manodopera; c) infrastrutture di trasporto e comunicazione per la connessione fisica e virtuale; d) luoghi sicuri e attrattivi per favorire la creatività tecnologica e artistica. Le critiche a questo modello sono fondamentalmente due. Centrato su alcune grandi città leader, rivela una disconnessione crescente con i territori fisici (entroterra). In secondo luogo, l’attenzione spasmodica per la cura delle attività più avanzate, rivela il rischio che si disinvesta sul resto.
La globalizzazione planetaria
Il filosofo e geografo Peter J. Taylor introduce nel 2004 il concetto di globalizzazione planetaria. E ci ricorda che in fondo ogni globalizzazione è stata un’era di grandi città. È stato così per la globalizzazione imperiale del XIX-XX secolo (estensione dell’Europa, intesa come Parigi e Londra), è stato così per la globalizzazione americana post 1945 (predominanza delle aziende statunitensi, con New York come modello), ed è così per la globalizzazione economica (corporate globalization) dagli anni Ottanta in poi (neoliberismo, ritorno al mercato, protezione delle multinazionali da parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio). Quest’ultima forma di globalizzazione sarebbe uno spazio di flussi e di reti che connettono diversi centri, sostenuta da un’élite tecnocratica, finanziaria e manageriale che ha portato all’estinzione dell’aristocrazia operaia dei paesi sviluppati. Le innovazioni associate a questa società fatta di flussi e reti genera, però, una miriade di perdenti (dai gilet gialli ai brexiters…). La rete delle città globali è per Taylor l’edificio della corporate globalization. In questo quadro, molta attenzione va posta sulle ricadute dell’urbanizzazione nei confronti del cambiamento climatico. Vi sono effetti rapidi, misurabili su un periodo breve, come nel caso dell’industrializzazione e del capitalismo carbonifero (ultimi due secoli, con vasto consenso), come pure effetti lenti su un periodo lungo, come nel caso dell’era pre-industriale e dell’invenzione dell’agricoltura (con conseguente progressivo aumento delle emissioni di metano, da far risalire a un periodo compreso tra gli 8.000 e i 5.000 anni fa).
L’urbanizzazione planetaria
Nel 2011, i geografi Neil Brenner e Christian Schmid propongono di superare alcune categorie desuete per comprendere il fenomeno di quella che definiscono urbanizzazione planetaria. Dal 1980 in poi l’urbanizzazione ha cambiato pelle, dando vita a una nuova scala urbana, da cui i concetti di sistema polinucleare, città-regione, galassia urbana. Il territorio urbano ha subìto poi una nuova articolazione, a seguito del progressivo spostamento dal centro all’esterno di alcuni servizi essenziali. Si è assistito alla quasi scomparsa del “selvatico” in area urbana, ma anche a ricadute pesanti in termini di degrado (oceani, deserti, montagne come luoghi di scarico massivo di scarti urbani). Infine, l’esplosione di alcune aree urbane ha ridefinito la geografia di alcuni luoghi e causato un diseguale sviluppo spaziale, con forte urbanizzazione in alcune aree e stagnazione e declino di alcune piccole e medie città (soprattutto in nord America). Secondo Brenner e Schmid c’è bisogno di una nuova epistemologia per comprendere il fenomeno in atto. Urbano e urbanizzazione sono pertanto categorie teoriche, da non confondersi con una concreta tipologia di insediamento (città, metropoli). La città è divenuta una categoria obsoleta nelle scienze sociali, mentre l’urbanizzazione diventa un processo multidimensionale che genera le città. È obsoleta anche la vecchia distinzione tra urbano e rurale, o tra urbano e non urbano, giacché l’urbano comprende ormai anche ciò che si considerava non urbano. Infine, l’urbanizzazione come processo globale compromette sempre più la natura (gli oceani, come si è visto). Per questo motivo i due autori non parlano tanto di urbanizzazione mondiale quanto piuttosto di urbanizzazione planetaria, perché a essere rimessa in questione è non solo la distinzione tra urbano e rurale ma anche tra società e natura.
La sfida per le piccole città
Il rapporto delle Nazioni Unite UN-Habitat del 2016 ci ricorda che l’urbanizzazione attuale è vulnerabile (disastri naturali) e non sostenibile (cambiamento climatico, insicurezza, precarietà alimentare).
Partendo dall’analisi degli autori e del rapporto appena citati, nel 2019 il sociologo canadese Benoît Lévesque ha collocato in questo ambito le sfide più interessanti per le città medie e piccole. Come possono collocarsi in questo quadro complesso? Sono condannate a giocare un ruolo ancillare, o addirittura a declinare? Secondo Lévesque, possono adottare nuove strategie di adattamento, in un’ottica policentrica che ottimizzi le conseguenze del calo demografico e scommetta sulla qualità di vita, sulla valorizzazione del patrimonio e del paesaggio per diventare attrattive agli occhi dei visitatori ma soprattutto di nuovi possibili residenti. La rete delle città sane, la rete europea delle medie città, la rete delle città slow, la rete dei comuni sostenibili sono solo alcuni esempi di alleanze tra paesi e piccole città che reagiscono e non vogliono morire. Ma soprattutto che puntano a diventare differenti e sostenibili.