Dalla fine del mondo alla fine del mondo

di Cardini Egidio

Dedicato a chi cala sempre la carta dello Spirito Santo
C’è un modo sistematicamente sbagliato di elaborare giudizi su ciò che investe la Chiesa, i suoi uomini e le sue donne ed è quello di calare sempre ed esclusivamente la carta dello Spirito Santo, che è, per eccellenza, il jolly che chiude ogni giocata, la linea definitiva che stronca ogni possibilità di ragionamento e di approfondimento.
Così, su ciò che riguarda il pontificato romano di Francesco e le sue implicazioni contemporanee, la carta trinitaria potrebbe portare, come spesso ha portato, a dire ogni bene sull’uomo, sul suo ruolo, sulle sue parole e azioni, senza interpretare né leggere alcunché.
Sovente, dentro una prospettiva ecclesiologica, ci siamo dimenticati che lo Spirito Santo accompagna e sostiene le sorti dell’annuncio evangelico cristiano e apre le strade per la costruzione del Regno di Dio, alimentando il dato della fede personale e comunitaria, ma non elegge i papi né ispira le scelte quotidiane più semplici e immediate. Se così fosse, ad esempio saremmo in difficoltà a spiegare l’episcopato romano di Giovanni XII, eletto nel 955 e morto nel 964 perché scaraventato da una finestra e presumibilmente il peggiore e più nefando vescovo di Roma di sempre.
Invece conferire allo stesso Spirito Santo un ruolo fondamentale e determinante nelle vicende apocalittiche, vale a dire rivelatrici della volontà del Dio cristiano, lasciando agli esseri umani la libertà su tutto il resto, permette di leggere obiettivamente e criticamente ogni fatto, ogni evento, ogni fenomeno e ogni processo. A titolo di esempio, potremmo riconoscere serenamente la santità personale di Giovanni Paolo II, pur criticando i risvolti pastorali e sociali del suo episcopato.
Ed è proprio dagli inciampi della lunga stagione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che è nato Francesco. Poteva restare Jorge Mário Bergoglio e invece è diventato Francesco e non un altro, perché quella stagione ecclesiale ha condotto inesorabilmente a lui, così come a eleggere Josef Ratzinger non è stato principalmente lo Spirito Santo, ma un collegio cardinalizio perfettamente preparato da Giovanni Paolo II per eleggere lui e non un altro.

Sulle macerie di una crisi del dato della fede
Dunque, Francesco è stato eletto al termine di una stagione che aveva partorito una crisi indi scutibile nel tessuto ecclesiale cattolico contemporaneo. Essa è stata ed è non certo solo una crisi di vocazioni religiose o di partecipazioni alle celebrazioni eucaristiche o una crisi di credibilità politica piuttosto che di funzionalità della curia romana. Francesco è arrivato sulle macerie di una cri si del dato della fede e della sua credibilità nel profilo storico contemporaneo, crisi prodotta certamente dalla diffusione di una secolarizza zione profonda nel XX secolo, ma acuita dall’i nadeguatezza di visione pastorale e teologica dei suoi due ultimi predecessori. L’affossamento dello spirito, prima ancora che delle timide riforme, del Concilio ecumenico Vaticano II gli ha consegna to una Chiesa in preda a un principio di afasia dell’annuncio e di asfissia della testimonianza. Avere battuto pervicacemente sul tasto dell’affer mazione di un’identità istituzionale della Chiesa, magari tentando di recuperare tradizioni antiche e autorità forti, ha allontanato la Chiesa dalla sto ria presente e Francesco lo ha inteso benissimo. Allora leggiamo alcuni risvolti importanti di questi nove anni, soprattutto nella prospettiva del futuro prossimo.

Ciò che Francesco è stato

  1. Francesco ha semplificato i messaggi e li ha resi antropologicamente assai più immediati e comprensibili, innanzitutto desacralizzando la figura del vescovo di Roma e poi rendendo più concreto il cuore dell’annuncio religioso cristiano.
    Aveva e ha di fronte un corpo ecclesiale che fatica profondamente a operare una sintesi di senso e di significato per una fede che richiede responsabilità storiche urgenti nonché scelte coraggiose e forti. Non a caso egli è osteggiato dai nostalgici di un ruolo tradizionalmente convenzionale per una Chiesa sovrastrutturale a un principio che egli stesso ha denunciato come “mondanità”. Si tratta di una mondanità intesa in senso contrapposto al concetto di storia. Se, da un lato, la storicità della fede del cristiano è assunzione di responsabilità dirette a servizio dell’uomo, e in particolare dell’uomo “ultimo”, da un altro lato la mondanità é soltanto accettazione delle logiche del potere umano, soprattutto di quello più cinicamente piegato sullo sfruttamento della vita altrui.
    Può sembrare paradossale che un vescovo di Roma vada proprio all’attacco del clericalismo, ma è certamente quest’ultima tendenza a rappresentare efficacemente il risvolto della mondanità nemica della stessa fede.
  2. L’opzione preferenziale per i poveri, anche se riconosciuta non tanto nella riflessione classica della teologia della liberazione, ma in quella più angolata della “teologia del popolo”, è emersa distintamente nella sua chiave più trasparente.
    Il concetto di “periferia dell’esistenza” è rappresentativo di uno sviluppo radicale del dato della stessa fede e della sua storicità.
    Se mai un’osservazione sconsolata possa essere proposta, azzardiamo una lettura spietata sull’impreparazione drammatica del popolo dei battezzati a cogliere il senso e soprattutto le opzioni pastorali e sociali. Nella Chiesa della prima metà del XXI secolo ogni opzione pastorale a favore dei poveri e degli ultimi della Terra purtroppo arriva sempre troppo in anticipo sul contesto di questa Chiesa.
    Su questo ritardo davanti a lui potremmo parafrasare quello che, a suo tempo, Paolo VI aveva detto di don Primo Mazzolari: «Camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso noi non gli si poteva tenere dietro e così ha sofferto lui e abbiamo sofferto noi». Davvero Francesco corre e la Chiesa non gli sta dietro.
  3. L’ elezione di Francesco è stata una dichiarazione di sconfitta e d’impotenza “provvidenziali” e nessuno s’impressioni per questo apparente paradosso. Esiste una verità molto dura da dichiarare, che consiste nel riconoscimento di un fallimento nella concezione di Chiesa nei trentacinque anni di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Le dimissioni di quest’ultimo sono state una resa esplicita. Molti le hanno lette dentro alcuni fallimenti certo importanti, ma di per sé stessi non apocalittici e rivelatori di processi “ultimi”: la vergogna degli abusi contro i minori, la corruzione, l’affarismo finanziario, il crollo delle vocazioni religiose, la debolezza istituzionale in molti contesti, l’apparente irriformabilità di parecchie istituzioni ecclesiali a partire dalla curia romana.
    Anche se tutto ciò è plausibile e conforme alla verità, il problema “numero uno” resta l’indebolimento del dato della fede popolare e l’inaridimento dei ministeri ecclesiali dentro un clericalismo bruciato alla propria base.
    Francesco ha indicato una possibile via d’uscita, garantendo un raggio di luce e consegnando un briciolo di speranza per ciò che egli è: un uomo dalla fede limpida, un testimone della miseria umana con una storia personale al di sopra di ogni sospetto e soprattutto un interprete lineare della modernità. Non un ideologico, non un ottuso, non un plateale “defensor fidei”.
    Oggi però l’acquisizione di questi tre elementi si associa anche alle sfide per il futuro prossimo, soprattutto alla luce di ciò che quest’uomo di 86 anni può essere.

Il bisogno di atti di rottura evangelica
1) Francesco non ha rivoluzionato le strutture ecclesiali. Ha prodotto una riforma essenziale della curia romana, ha rimesso nell’angolo molte forme di tradizionalismo cattolico che erano state malamente favorite dai suoi due predecessori, ha posto vincoli molto forti sul controllo e la repressione di abusi personali e finanziari, ha proposto nuove forme di individuazione dei vescovi (qualche volta commettendo anche errori d’ingenuità con persone inadeguate) secondo criteri più autenticamente evangelici. Poteva fare molto di più, ma non dobbiamo dimenticare che la sua posizione è stata fin dall’inizio assai scomoda e difficile, sia per l’età non propriamente giovanissima sia per il contesto fortemente perturbato in cui si è trovato.
2) Purtroppo i nemici pullulano e si danno da fare. Il prossimo conclave sarà delicatissimo e probabilmente conflittuale. Non sono così certo che le sue nomine cardinalizie possano garantire un’elezione nel solco della continuità e del rinnovamento. Da più parti nella Chiesa si elevano, e a volte non si elevano ma si avvertono tenebrosamente, considerazioni aspre sulla linea pastorale proposta.
Oggi Francesco dovrebbe preparare per il successore un ventaglio di scelte inderogabili per il futuro immediato: un’intensa opera di purificazione spirituale del popolo di Dio, forme efficaci di annuncio evangelico, il rinnovamento del linguaggio religioso, la demolizione una volta per tutte del clericalismo autoreferenziale, la crescita di un laicato finalmente privo di limitazioni e di complessi, risposte umanamente significative sulle grandi questioni della morale individuale, una nuova articolazione strutturale della Chiesa in senso più partecipativo e corresponsabile e infine una contrapposizione epocale a tutti i sistemi di morte e di dominazione totalitaria.
3) Resta a Francesco un compito che non può assolutamente tralasciare e che consiste nella consegna profetica di sé stesso e della Chiesa alla storia del tempo presente.
Il momento è delicatissimo perché non possiamo tornare indietro. Se vale quanto dicevo all’inizio sul ruolo fondamentale e sintetico dello Spirito Santo, noi non desideriamo che questa stagione abbia rappresentato soltanto un raggio di luce che a breve potrebbe tornare a spegnersi.
Da un uomo arrivato «dalla fine del mondo», in un tempo che pare essere «la fine del mondo», ci aspettiamo, per ciò che gli resta, atti di rottura evangelica. Ne abbiamo un bisogno enorme.

Egidio Cardini

redazione di Madrugada

insegnante, risiede a Castano Primo (Mi)