Cronache dal fronte interno

di Monini Francesco

In questi giorni di guerra mi è tornata in mente una vecchia “lezione” di un antropologo all’università. Non era solo bravo, aveva anche il raro dono della sintesi. Stava parlando di quanto noi umani siamo animali a tutti gli effetti, quasi uguali a tutti gli altri animali.
«Ci distinguiamo – diceva – solo per tre particolari: 1) camminiamo eretti; 2) abbiamo un cervello un po’ più grosso; 3) passiamo il tempo a farci la guerra». Sarà per questo che le guerre si assomigliano tutte. E ci assomigliano.

L’odore della guerra
C’è però una cosa che distingue un tipo particolare di guerra. Non sto pensando allo stupefacente progresso dell’industria delle armi: una clava e un drone si maneggiano in modo diverso, ma condividono la stessa intenzione e il medesimo effetto e destino.
La guerra diventa un’altra cosa quando il vento ci soffia addosso il suo odore (un misto di sangue orrore paura, diverso da qualsiasi altro odore), quando diventa l’argomento che occupa i nostri giorni e i nostri pensieri. In questi casi, volenti o nolenti, siamo tutti chiamati a “entrare in guerra”. Così sta accadendo per la guerra in Ucraina. E anche per la “guerra alla pandemia” era successa una cosa del genere.

Il fronte interno
La guerra, si sa, non siamo noi a deciderla, non l’hanno mai scelta le donne, gli uomini, i ragazzi, i bambini. Nelle “autocrazie” (la Russia o la Cina), come nelle “democrazie” (così amiamo chiamare l’Italia, gli Stati europei, gli USA), la guerra la decidono i governi e i capi di Stato, senza consultare il “popolo sovrano” (o per caso qualcuno vi ha fatto votare o vi ha chiesto come la pensavate in proposito?). Non ci mettono un elmo in testa e un fucile a tracolla, ma alla guerra ci finiamo dentro fino al collo: tutti arruolati sul “Fronte Interno”.
Sul Fronte Interno non piovono le bombe, ma nella guerra moderna è diventato quasi più importante della Prima Linea. Perché sul Fronte Interno – sopra le nostre teste e dentro i nostri pensieri – accadono cose importanti, decisive per le sorti del conflitto, ma di cui spesso non ci accorgiamo.
Ad esempio, cambiano le parole e il loro uso. Il linguaggio è un segno inconfondibile del sentimento comune di una società, come della nostra personale percezione della realtà, del nostro atteggiamento verso chi ci sta attorno. Ecco allora che assistiamo alla pericolosa resurrezione di due parole che da almeno una cinquantina d’anni avevamo smesso di usare: nemico ed eroe.

Giocare alla guerra
Mio padre era bambino negli anni Venti del secolo scorso. Quando “giocava alla guerra” con gli amici del quartiere si dividevano in due squadre: italiani contro crucchi. La prima guerra mondiale era finita e l’Impero austroungarico si era dissolto, ma nell’immaginario l’austriaco (il crucco) era ancora il “nemico”. Quarant’anni dopo, in pieno boom economico, il bambino ero io. Ma la seconda guerra mondiale era lontana e il nemico tedesco (anche lui crucco) dimenticato. A me e alla mia banda (complice l’invasione del sogno americano) non rimaneva che giocare a cowboy contro gli indiani. Da che mondo è mondo i bambini maschi giocano alla guerra. Devono esercitarsi al ruolo che una millenaria cultura patriarcale ha assegnato loro. Ma si gioca alla guerra solo in tempo di pace. Oggi invece, sul Fronte Interno della guerra in Ucraina, non si gioca più. Oggi si fa sul serio.

Giocare con la guerra
Oggi anche l’Italia è in guerra. Negli ultimi due mesi Draghi e i suoi ministri, i partiti (di governo e di opposizione), la stampa e i canali televisivi ce l’hanno ripetuto in continuazione. La guerra e la retorica bellicista hanno occupato tutto lo spazio, pubblico e privato. Bisogna difendere la democrazia! Bisogna spendere più denaro pubblico in armamenti! Bisogna mandare più armi in Ucraina! Bisogna fare ancora più sanzioni alla Russia… a costo di chiudere i rubinetti del gas: «Dobbiamo essere disposti a fare tutti dei sacrifici» (Mario Draghi). Quando a “giocare con la guerra” sono i Grandi, i capi di governo e i padroni dell’economia, della finanza e dell’informazione, ci vuole un nemico vero: e un cinico dittatore come Vladimir Putin è perfetto nella parte (anche se, bisogna pur dirlo, negli ultimi 21 anni con Vladimir Putin hanno fatto affari e si sono sorrisi al tavolo del G8).

Ma quanti sono questi nemici?
Putin il dittatore, Putin l’invasore (senza nessuna possibile scusante) è però il capo di Stato della Russia, un Paese di 150 milioni di abitanti. 150 milioni di russi (più altri 30 milioni di russofoni che vivono nei Paesi confinanti usciti dall’orbita sovietica dopo il 1991).
Sono tutti nostri nemici? Si direbbe proprio di sì. È l’effetto della retorica bellicista e del “bombardamento mediatico” a cui noi (noi del Fronte Interno) siamo sottoposti. La russofobia sembra aver conquistato l’Italia. A tutti i livelli. Come se la grande Russia, il popolo russo, i cittadini russi (compresi gli 80.000 che vivono, lavorano o studiano in Italia) fossero direttamente corresponsabili delle bombe in Ucraina e delle indicibili sofferenze dei profughi ucraini.
Giusto, doveroso, necessario aiutare in tutti i modi i profughi ucraini, circa centomila, arrivati finora nel nostro Paese, ma come dobbiamo giudicare gli episodi di discriminazione, intolleranza, anche di razzismo cui sono stati fatti segno i russi residenti in Italia?

Il disfattista vestito di bianco
Ma i russi non bastano, la conta dei nemici non è ancora finita.
Nel mirino ci sono anche i pacifisti. Gli obiettori, i nonviolenti, quelli che non vogliono mandare altre armi al nuovo “eroe” Zelensky con il solo effetto di prolungare la guerra e contare altri morti. Quelli per la tregua, la trattativa, la pace subito. In tempo di guerra, i pacifisti sono pericolosi perché, come si suole dire, «fanno il gioco del nemico». Quindi anche loro sono nemici. Allora non è più sufficiente silenziarli, accusarli di equidistanza, irriderli come anime belle e ingenui sognatori.
I pacifisti vanno attaccati, combattuti, azzerati. Tutti, anche quello di Roma che veste di bianco. Anche per lui (potrebbe essere il loro capo) sarebbe ora di resuscitare un aggettivo antico, molto usato un centinaio di anni fa, durante la grande guerra: disfattista.

Francesco Monini

direttore responsabile di Madrugada