Armi, dialogo e potere della comunicazione
Ho avuto la fortuna di non vivere mai direttamente la guerra. Negli anni, anche per gli studi e la professione che ho scelto, sono da sempre sensibile alla tutela dei diritti, soprattutto per coloro che si trovano in situazioni di “minorata difesa”. Pertanto sento che qualcosa stride in questa comunicazione massmediatica totalizzante in ordine agli avvenimenti ucraini: se giustamente mette in rilievo la sofferenza e la disumanità della guerra, evita di dare conto di una più articolata realtà e umanità.
La dialettica processuale nella ricerca della giustizia
Le varie associazioni di avvocati europei, dai riferimenti più istituzionalizzati (Consigli dell’Ordine degli Avvocati) agli organismi internazionali, si sono espressi tutti con fermezza, con viva preoccupazione e indignazione dinanzi alla violazione dei diritti umani che ogni guerra comporta, al palese non rispetto delle norme di diritto internazionale, poste anche queste a presidio della pace.
Da sempre il ruolo e la funzione dell’avvocato è la difesa dei diritti dei cittadini, a partire da quelli più indifesi, in nome della Giustizia, che in questi giorni, di fronte agli accadimenti internazionali, appare sempre più lontana e dimenticata. Le armi dell’avvocato sono codice e toga, il luogo di “battaglia” è da sempre l’aula di tribunale, dove i nemici non esistono, poiché la Giustizia si alimenta e matura grazie alla comune dialettica processuale, ove più parti, anche se contrapposte, sono mosse da un unico intento: la ricerca della Giustizia. Quando il conflitto da dialettico si trasforma in armato, non vince la Giustizia, ma la legge del più forte che sovrasta un altro diritto, quello alla pace, quello al rispetto dei valori sanciti dall’art. 11 della nostra Costituzione, nata proprio subito dopo conflitti devastanti e che è bene ricordare: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Ecco, qui sta il punto: mai deve essere mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Pare chiaro quindi che il dovere dell’Europa sia di lavorare per spingere la Russia ad astenersi dal portare avanti l’uso della forza militare, promuovendo una strada pacifica di risoluzione della controversia insieme all’Ucraina.
Essere obiettivi nella controversia attuale
Tutti gli Stati sono obbligati a cooperare per porre fine con mezzi leciti a questa grave violazione del divieto di usare la forza, che è norma imperativa del diritto internazionale generale.
Ma per porre in essere un’azione efficace e seria si deve analizzare con estrema obiettività la “controversia” che sottende alle azioni aggressive che ne sono conseguite, collocarla nell’ambito storico in cui è insorta e nel panorama internazionale che l’ha accompagnata sino alle estreme conseguenze.
Cosa è quindi che stride nel messaggio imperante di comunicazione? Ho riletto il discorso del nostro premier, riporto solo alcuni passi: «Gli argomenti presentati dalla Federazione Russa per giustificare la sua aggressione non hanno alcun fondamento, né di fatto né di diritto. Sono un uso cinico e perverso del diritto internazionale da parte di un regime che non ha vergogna, governa per paura e si abbandona a bugie e propaganda.
Sostenere che altri Stati, specialmente in Occidente, non hanno precedenti migliori quando si tratta di rispettare il diritto internazionale è una distrazione moralmente corrotta e irrilevante…».
«L’Italia ha risposto all’appello del presidente Zelensky che aveva chiesto equipaggiamenti, armamenti e veicoli militari per proteggersi dall’aggressione russa». «A un popolo che si difende da un attacco militare e chiede aiuto alle nostre democrazie, non è possibile rispondere solo con incoraggiamenti e atti di deterrenza. Questa è la posizione italiana, la posizione dell’Unione Europea, la posizione di tutti i nostri alleati». Si tratta di una posizione chiara, di una indubbia discesa in campo, quasi una sentenza, dove la dialettica è lasciata ai negoziati e la giustizia ai codici, quasi come se la storia di questa parte del mondo iniziasse oggi e il popolo russo sia fatto solo da Putin e di oligarchi.
Negativo puntare allo scontro e all’annientamento dell’avversario
Sappiamo che non è così. Di conseguenza, questo stridore ha la sua ragion d’essere. Nel mio ambiente si direbbe “manca il contraddittorio”, in un’informazione massmediatica parziale: da una parte la condanna unanime o quasi dell’invasione russa in Ucraina, dall’altra un continuo messaggio che di chiamata alla pace o comunque di interruzione del conflitto non ha pressoché nulla.
Non parlo delle sanzioni economiche e finanziarie, parlo dell’annullamento della storia, dello scontro culturale, dell’annientamento di un popolo. Dall’esclusione degli artisti e sportivi russi, delle produzioni letterarie russe anche del passato (Dostoevskij), sino alla frattura tra oriente e occidente, e così via. Anzi, ormai i può parlare di vera e propria contrapposizione. Una domanda sorge lecita: cosa ci spinge, dopo anni di colpevole attendismo nell’affrontare le criticità già da tempo evidenziate nelle zone interessate (vicinissime a noi), a muoverci per una escalation militare? Più armi all’Ucraina possono mitigare la soverchiante armata russa? Ridurre sofferenze e morti? Favorire la trattativa? Non dovremmo essere conseguenti con la nostra Costituzione che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e cercare tutte le vie – e sono tante- per fare cessare la guerra? Viene da chiedersi, cosa vogliamo veramente noi occidentali? Forse una timida e parziale risposta può essere letta nel guardare con visione più ampia.
Attivazione della Direttiva 2001 per la situazione ucraina
Mi sento di rivolgere un ultimo sguardo sull’uso degli strumenti di diritto internazionale ed europeo, solo per chiedermi se questa è la dialettica sulla base della quale può fondarsi il rispetto dell’art. 11 della nostra Costituzione (e su quanto sta alla base dei principi fondanti di tanti altri Paesi) e sulla quale incentrare la ricerca della Pace. I primi giorni di marzo il Consiglio Europeo ha deciso di dare attuazione alla Direttiva 2001/55/CE al fine di garantire una “protezione temporanea” agli ucraini in fuga dalla guerra: si tratta della procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi terzi che non possono rientrare nel loro Paese d’origine, una tutela immediata e temporanea. In tal modo si cerca di evitare che le persone siano sottoposte a un esame della loro richiesta di protezione che porterebbe a una paralisi delle procedure amministrative, a una vessatoria procedura burocratica. Inoltre ciò rende possibile che i profughi possano subito godere di diritti armonizzati in tutta l’Unione che conferiscano un livello di protezione adeguato, comprendente titoli di soggiorno, la possibilità esercitare qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo e di essere adeguatamente alloggiati, la necessaria assistenza sociale, medica o di altro tipo e contributi al sostentamento.
Ora l’attivazione della protezione temporanea porterà quanto prima alla nascita di un piano europeo di accoglienza con quote di ripartizione tra i vari Stati.
Discriminanti nella sua attuazione
Ma in essa si prevede anche che la protezione riguarda, oltre che tutti i cittadini ucraini fuggiti dall’inizio del conflitto, dei loro famigliari e parenti stretti (cittadini ucraini o non) che convivevano – parzialmente o totalmente dipendenti – anche i cittadini non ucraini di Paesi terzi che soggiornavano legalmente in Ucraina e che non possono ritornare in sicurezza nel loro Paese di origine. I Paesi dell’Ue del gruppo di Visegrád e l’Austria hanno contestato l’estensione della protezione temporanea a cittadini non ucraini raggiungendo l’obiettivo di restringere la proposta iniziale della Commissione: ai cittadini non ucraini che vivevano in Ucraina resta il diritto di presentare una domanda di asilo alla frontiera esterna dell’Unione. Così l’Europa accogliente ha finalmente dato vita vera a una Direttiva del 2001, nata dopo il conflitto nell’ex Jugoslavia, sempre per far fronte a numeri enormi di esseri umani che scappavano.
Per una dialettica delle parti contro una strategia di dominio
Torna lo stridore, la memoria breve riporta a Visegrád e non solo. Porta al ricordo della crisi siriana della metà del decennio scorso, all’Afghanistan dell’estate 2021. Porta alla negazione radicale del diritto d’asilo. Eppure la direttiva era stata concepita non solo per rispondere a un arrivo diretto di sfollati, come è ora il caso ucraino, ma per gestire le crisi internazionali di rifugiati da affrontare anche attraverso programmi di evacuazione verso l’Europa, connotati da alti numeri. Eppure tutto ciò non è stato mai attuato, bastava la cosiddetta maggioranza qualificata degli Stati membri. In realtà quindi sottostanti ad alcune politiche di solidarietà, come a quelle che sostengono la resistenza ucraina motivando che «a un popolo che si difende da un attacco militare e chiede aiuto alle nostre democrazie, non è possibile rispondere solo con incoraggiamenti e atti di deterrenza», esiste una strategia che appare selezionante, di “dominio” e che con grande probabilità non vuole effettivamente superare il conflitto armato attraverso la pur aspra dialettica.
E anche l’informazione e la comunicazione si stanno ponendo al servizio di questa parzialità gravemente di parte. Lo stridore non si placa, deve farci prendere parola.
Donatella Ianelli
avvocato penalista del foro di Bologna
Segreteria di Macondo